La guerra e la sua narrazione mediatica. Il caso italiano. E poi Biden, una gaffe che non è tale ma una indicazione sui disegni americani ad Est. Il Riformista ne discute con Nadia Urbinati, accademica, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla prestigiosa Columbia University di New York. Sulla deriva da pensiero unico dei resistenti in pantofole, ha scritto di recente: «L’approccio monotematico tende ad estremizzare. Crea un ambiente retorico che non lascia (non deve lasciare) spazio al dubbio; che non favorisce un’analisi degli eventi, ma solo reazioni emotive a quegli eventi che trangugiamo come fossero vino buono; che scoraggia la formazione di opinioni interlocutorie e capaci di presentarsi per quel che sono, ovvero punti di vista aperti alla contestazione e alla revisione. Le opinioni che sono confezionate dal rullo compressore del paradigma binario si impongono a noi come fatti granitici e oggettivi, impermeabili al giudizio critico. In questo clima si promuove non la conoscenza degli eventi, ma una religiosa adesione. Non si facilita la simpatetica disposizione verso le sofferenze umane, ma si alimenta l’emozione unidirezionale pro/contro, come se fossimo tutti noi sul campo di battaglia».

Un pensiero unico “interventista”: si manifesta nei talk show televisivi, conquista la stampa mainstream. C’è di che preoccuparsi?
Per fortuna l’Italia non ha un ruolo internazionale centrale. Se fossimo negli Stati Uniti o in Francia o in Germania, mi preoccuperebbe molto.

Da politologa dei “due mondi”, lei come se lo spiega il degrado del dibattito anche su una cosa maledettamente seria come è una guerra?
È difficile da comprendere. I talk show esistono in tutti i Paesi, ma non sono altrettanto aggressivi. Sono più “umani” e gentili, più genuinamente di discussione e di apprendimento. Anche le scenografie sono diverse. Nei nostri talk show, esse creano un ambiente battagliero; l’apparato scenico suggerisce contrasto e genera tensione. Il conduttore si fa spesso aizzatore come a dover creare spettacolo, anche perché più c’è spettacolo, più c’è audience e più i pubblicitari sono contenti. Il sistema è concepito per generare profitto. C’è chi vende aspirapolveri chi gioielli e chi combattimenti gladiatori per mezzo di parole. La logica è quella di generare interesse nello spettatore-consumatore. E i mezzi sono funzionali a questo fine. Lo è anche la disposizione degli ospiti nello studio, spesso messi l’uno di fronte all’altro quasi a facilitare la polemica e la “rissa”. Se fossero pochi e disposti in modo tale da essere rivolti verso i telespettatori, “costretti” a fissare la telecamera invece che messi di fronte agli occhi e ai visi degli altri interlocutori (magari portatori di idee opposte), forse sarebbero indotti ad essere più gentili o quanto meno a non sfoderare la stessa aggressività.

A proposito di andare sopra le righe. Dal castello di Varsavia, Joe Biden ha definito Putin un “macellaio”. Solo una gaffe o c’è dell’altro?
Questo presidente – non è il primo – vuole avere uno stile colloquiale. Non è necessario essere “trumpisti” per fare questo. La figura del presidente, quello americano soprattutto, si presta al rapporto diretto col popolo. A partire da Woodrow Wilson, inoltre, da quando cioè la politica cominciò ad avvalersi dei mezzi di informazione di massa e della propaganda (allora si era inoltre in guerra), i presidenti hanno sistematicamente cercato un rapporto diretto con “l’America”, bipassando le forme istituzionali di comunicazione. Hanno spesso adottato il linguaggio ordinario, quello della quotidianità. L’espressione usata da Biden nei confronti di Putin rientra in questo metodo – “he’s a butcher” è un’espressione tutt’altro che rara nel Paese. Biden vuole essere come l’americano ordinario anche nel dare giudizi. Nel discorso tenuto a Varsavia non ha proposto una definizione del regime di Putin; ha invece esclamato la sua reazione con toni estremamente colloquiali – “for God’s sake, this man cannot remain in power”-che hanno tolto gravitas al messaggio. Quel che lui ha detto lo avrebbe detto un qualunque americano. C’è insomma un elemento retorico populista molto comune oltre oceano. In aggiunta vi è un elemento caratteriale — Biden è famoso per le sue gaffe. È una gaffe-machine. Le commette con quelli del suo partito e con gli avversari. Ma vi è un terzo aspetto più intrigante e, per certi aspetti, inquietante…

Vale a dire?
Proprio per il tono colloquiale usato, tendo a credere che quelle parole non gli siano dal sen fuggite. Davanti al castello di Varsavia, nel cuore dell’Europa, con tutto il mondo in attesa – nessuno si sarebbe aspettato che Biden si fosse comportasse come il vicino di casa. Egli ha scelto di parlare per coloro che lo capivano senza sforzo. Biden stava parlando anche ai suoi di casa. Ricordiamo che è messo malissimo nei sondaggi, soprattutto dopo l’Afghanistan; dipinto come debole, incerto, vecchio etc. E allora ha voluto dimostrare che sa essere aggressivo, che non gliene frega niente di avere Putin vicino. Era molto un parlare ai suoi, anche in vista delle elezioni di mid term. Ma c’è un quarto aspetto, ovvero con quei toni colloquiali, Biden ha comunicato qual è la strategia americana.

E quale sarebbe?
Lui ce l’ha detto. La strategia americana è di non necessariamente terminare la guerra prima possibile, ma di renderla cronica. Sembra volere che l’Ucraina sia per la Russia quel che fu l’Afghanistan per l’Unione Sovietica. Una guerra di consunzione dell’avversario. A noi europei questo non conviene per nulla. Volendo, c’è una tensione tra quello che la Casa Bianca vuole e quello che è conveniente per noi. In questo momento, non sono la stessa cosa.

Le uscite di Biden danno conto, di un rapporto irrisolto con la Russia non solo dell’attuale presidenza Usa ma anche di quelle che l’hanno preceduta. Come si spiega questo atteggiamento?
Perché la Russia è diventata, dal punto di vista economico, parte del giro. I russi sono “arrapati” capitalisti e oligarchi non molto diversi dai loro simili in Occidente. Amano il lusso e adorano la bella vita. Dal punto di vista economico, sono dentro il sistema occidentale. Quelli del pre-1989 erano se non altro primi della classe non imitatori; ora sono capitalisti di seconda classe e imitatori. Visti dall’America, non sono nemici altrettanto onorevoli dei predecessori. Sono un’ombra di quel che furono. Questo lo si vede dall’atteggiamento sia dei predecessori di Biden che di Biden. La Russia è “grande”, ma non nel senso in cui lo era (nell’immaginario del nemico assoluto) l’Unione Sovietica. La Russia vive di luce riflessa nel suo passato. E questo lo dimostra anche il fatto che, come ci raccontano gli analisti, i suoi armamenti sono antichi e la sua strategia è antica. È il passato che sta parlando, non il presente, tantomeno il futuro. Gli americani non sembrano avere rispetto nei confronti di questo avversario russo, mentre hanno maggiore rispetto verso l’avversario cinese, che certamente ha abbracciato il capitalismo ma si muove come una massa ordinata e organica e questo impressiona l’immaginario imperiale americano.

In precedenza, analizzando l’uscita polacca di Biden, lei ha messo l’accento su una dissonanza tra gli interessi americani e quelli europei.
Direi proprio di sì. Io pensavo, all’inizio delle ostilità, che l’unica soluzione, immediata e incisiva, sarebbe venuta da un incontro diretto Putin-Biden. Ma Biden non lo vuole proprio incontrare uno che considera un “macellaio”. Dunque, quando ha usato questi termini colloquiali, Biden ha fatto intendere chiaramente che lui non ha alcun interesse a incontrare Putin. A questo punto, spetta all’Europa muoversi da protagonista. Se noi vogliamo che la guerra finisca prima possibile e che finisca con una pace giusta e duratura, occorre che l’Unione Europea esca dal cono d’ombra americano e che diventi protagonista. E che gestisca in prima persona, e con una voce sola, la politica sul proprio continente, che sappia creare le condizioni per una pace giusta e duratura, che scongiuri un Afghanistan in Europa. C’è di che essere preoccupati per la mancanza di autonomia dei nostri leader nazionali, di Mario Draghi anche, che pensano di usare la guerra come espediente per giustificare il riarmo, non della UE ma dei singoli stati. Un’Europa di nazionalismi come specchio di una Russia nazionalista.

Lei che studia i regimi politici e i leader populisti, a uno studente dell’università in cui insegna, la Columbia University di New York, o anche ad un millennial italiano, come racconterebbe chi è Vladimir Vladimirovich Putin?
Lui è un autocrate. Che viene dal Kgb, cioè dal sistema repressivo del vecchio regime. Del vecchio regime, Putin ha traghettato nel nuovo la dimensione repressiva e autocratica. La sua formazione è poliziesca. E ha indirizzato se stesso e la Russia verso la realizzazione di un progetto nazionalista e repressivo. Putin ha sostituito il discorso internazionalista precedente con quello della Grande Madre Russia. E con la personalità autoritaria ambisce ad entrare nei libri di storia per poter dire, probabilmente, che dopo il declino dell’Unione Sovietica, lui ha ridato credibilità a questo grande Paese, orgoglio nazionale ai russi. E da questa prospettiva ribadisce e vuole affermare che il cuore della Russia è in Europa. Putin vuole tenere la Russia in Europa, ma con la diversità che le è propria, e che le viene dal passato lungo dell’epoca presovietica, zarista. Mi sembra che egli abbia questa visione nazionalista ma anche europea.

Parafrasando Donald Trump, e il suo slogan, che fu vincente nelle precedenti presidenziali, “America first”, si può parlare di Vladimir Putin in termini di “Russia first”?
No, piuttosto io direi, parafrasando lo slogan di Biden, “Russia is back”.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.