È desolante pensare che uno dei giuristi più raffinati e colti della sua epoca verrà probabilmente ricordato da molti soprattutto per una bufala infamante come quella della trattativa Stato-mafia. Lo è a maggior ragione perché quella favola nera raccontata tante volte da diventare vera è una lente deformante che distorce il senso di una riflessione e di un operato politico spesi sempre con l’obiettivo di correggere le storture che rendono o possono spesso rendere la giustizia ingiusta.

Conso era, con Sergio Cotta e Leopoldo Elia, uno dei pilastri della cultura giuridica progressista cattolica. È stato vicepresidente del Csm, presidente della Corte costituzionale, ministro della Giustizia in due governi consecutivi, Amato e Ciampi dal febbraio 1993 al maggio 1994, ma il suo rapporto con la politica non è mai diventato davvero strutturale. A differenza di Elia, vero ponte tra il mondo del diritto e quello della politica, Conso è sempre rimasto un giurista che forniva alla politica la sua esperienza e il suo lavoro senza mai diventare neppure in parte un politico.
Professore a Urbino e alla Lumsa, passò dalla teoria alla pratica per la prima volta nel 1974: vicepresidente della commissione istituita presso il ministero della Giustizia con l’incarico di redigere il nuovo Codice penale, presieduta da Giandomenico Pisapia. Quell’incarico non venne mai portato a termine. La commissione fu sciolta dopo due anni e il nuovo codice vide la luce solo nel 1989, frutto di una commissione diversa, sempre guidata da Pisapia, che aveva accolto solo in parte le indicazioni del lavoro degli anni ‘70.

Il senso di quel lavoro lo illustrò comunque lo stesso Conso, in un lungo articolo pubblicato nel 1978 dalla Stampa, la cui attualità, a oltre 40 anni di distanza, è sconcertante ma eloquente. In materia di carcerazione preventiva, il futuro presidente della Consulta scriveva che “il margine di discrezionalità a disposizione del magistrato resta così lato da aprire continuamente la porta a mandati di cattura tanto ‘leggeri’ nella motivazione quanto ‘pesanti’ negli effetti”. Nel nuovo codice la custodia cautelare avrebbe dovuto “collocarsi come ultima spiaggia cui fare ricorso solo quando gli altri strumenti apparissero non adeguati”. Questo “principio di adeguatezza” doveva rappresentare per Conso “la chiave di volta del nuovo sistema”.

Col tempo Conso si era anche convinto della necessità di separare le carriere dei magistrati, dopo l’opposizione iniziale. “Ritengo che sia ineluttabile: il processo deve essere accusatorio e non più inquisitorio, parità di parti, terzietà del giudice. E terzietà del giudice ha convinto anche me”, affermava nel 2009 spiegando il suo ripensamento.
Conso si trovò a guidare il ministero di via Arenula nella fase più difficile nella storia dei rapporti tra politica e giustizia: nel cuore della tempesta di tangentopoli. Di fronte allo smantellamento dell’intero sistema politico da parte della Procura di Milano decise una mossa drastica: un decreto che depenalizzava il finanziamento illecito dei partiti e che avrebbe avuto effetti retroattivi, salvando così molti dei coinvolti nelle inchieste di tangentopoli ma anche l’edificio istituzionale della Repubblica.

Il Pds fu in un primo momento d’accordo. Poi la procura di Milano insorse, i grandi giornali decisero di aprire il fuoco sul decreto, il Pds rovesciò nel giro di poche ore la linea che aveva deciso di adottare e bocciò il decreto. Per la prima volta nella storia della Repubblica il presidente della Repubblica Scalfaro scelse di non controfirmare un decreto, facendolo decadere. Lo chiamarono “colpo di spugna”. In realtà anche in quell’occasione Conso scelse di non assecondare la furia giustizialista, vendicativa e superficiale che con i complessi equilibri della vera giustizia aveva ben poco a che vedere. Fu sconfitto e con lui lo fu, purtroppo e per decenni, un’intera concezione del diritto e della giustizia che era stata sino a quel momento patrimonio della sinistra laica e cattolica..