Ho seguito con partecipazione la manifestazione sindacale di sabato 16 ottobre, richiamato oltre che dalla passione sindacale dal suo aspetto politico e ideale centrato sull’antifascismo e la democrazia. Del resto era questo che dava un segno unitario molto ampio a quella mobilitazione. Credo che questa sia stata la manifestazione più politica del sindacato negli ultimi dieci anni.

A mio parere ha avuto il limite di essere stata, nei discorsi, attraversata da tanta retorica – richiamando analogie inappropriate con eventi storici di un secolo fa con l’avvento del ventennio fascista – del passato più che accentuare gli aspetti concreti e di vita che rivestono per ogni sindacalista termini come antifascismo e democrazia. Una manifestazione come questa aveva il compito di chiarire chi sono oggi gli eredi dei fascisti, il fulcro della cultura fascista. Nel mio pensiero è fascista chi fonda la sua visione politica sulla primazia nazionale, di razza, cultura e nega l’uguaglianza con altri (individui o popoli), considerati per qualche caratteristica inferiori, negando universalità ai principi di libertà, di uguaglianza, distorcendo il significato di patria, famiglia, religione per farne una barriera apertamente, o in modo mascherato, di stampo razzista. A volte creando muri di “difesa” per arrestare i flussi migratori dei nuovi “dannati della terra” (ne esistono 75 nel mondo, metà costruiti con filo spinato o in cemento in questo avvio del XXI secolo).

Questo per me questo è il marchio fascista , ovvero la negazione dell’uguaglianza di donne e uomini, di popoli e culture, il restare prigioniero di una mentalità coloniale e del primato dell’uomo bianco. È chiaro nella mia mente anche il pericolo dell’eredità fascista del modello corporativo, sempre risorgente come “l’araba fenice” sotto diverse spoglie, che pensa alle relazioni sociali e al ruolo dei corpi intermedi attraverso una visione mitica della vita e su una sorta di militarizzazione e statalizzazione fondata su forme autoritarie che essendo tali producono forme discriminatorie della politica. È chiaro che chi persegue questi obiettivi ha in mente una organizzazione corporativa dell’economia, che annulla la libertà sindacale. Questi elementi, sappiamo bene, circolano dentro il dibattito politico e pertanto essere antifascisti significa evidenziarli e contrastarli. Ma tutto questo non è stato evidenziato in modo radicale nella manifestazione di Roma, che si è soffermata sul passato, affermando alcuni principi e valori e ha richiamato i temi di confronto con il Governo, ma non ha spinto oltre.

Del resto, il nostro paese, per ragioni politiche, non ha fatto fino in fondo i conti con l’eredità del fascismo lasciando che certi tratti culturali si siano sedimentati. Oggi è possibile valutare e analizzare– storicamente, culturalmente, socialmente, politicamente – il “continuismo” e cosa ha comportato il passaggio di uomini e strutture dallo Stato, e dalle istituzioni fasciste, a quello democratico e repubblicano. Un fenomeno che ha attraversato le strutture statali, le gerarchie burocratiche, il giornalismo, l’accademia, l’economia e la finanza, l’esercito e la pubblica sicurezza. Ma anche i partiti e i sindacati. Cosa ha significato lo slittamento dello Stato e dell’ Italia fascista nella repubblica antifascista? Sono domande che ci rifiutiamo di farci cullandoci nell’illusione che tutto sommato gli italiani siano “brava gente” e che nulla abbiano da rimproverarsi dell’orrore che ha attraversato l’Europa.

Ma quello che mi preoccupa di più è come in quest’epoca storica segnata da profonde innovazioni sul piano economico, tecnologico e di relazioni umani si sia rimasti fermi sul terreno dell’innovazione democratica e che si sia stati più preoccupati della difesa del vecchio patrimonio culturale, sociale e religioso e si fatichi nell’individuare e realizzare investimenti per rivitalizzare la democrazia rappresentativa, ad esempio con referendum propositivi e deliberativi e non solo di abrogativi. Il fatto che l’astensionismo al voto sia in costante aumento è per ogni democratico un problema che deve essere analizzato con rigore e compreso nelle sue motivazioni. Con troppo semplicismo si è manifestata una grande soddisfazione nel vedere scomparire le ideologie, ma non si è stati capaci di coprire quel vuoto. È ovvio che nel vuoto, come nel buio, ricompaiono i fantasmi. Non di ideologie la democrazia ha bisogno ma di visione e chiarezza di missione pur contrapposte.

Per quanto riguarda il sindacato, che per me resta il luogo in cui meglio si può comprendere l’intreccio tra mutamento sociale e democrazia, ho l’impressione, da osservatore simpatetico, che non abbia ancora colto, essendone direttamente coinvolto, che le ragioni del suo indebolirsi sono frutto dei processi di metamorfosi del lavoro e di ristrutturazione della società e soprattutto della corporativizzazione dei corpi intermedi da cui germina il populismo, anche rancoroso, che oggi chiassosamente circola nelle nostre piazze e che non disdegna la violenza. Ecco perché ritengo che sia proprio dalla manifestazione nazionale di Roma e dalle ragioni che l’hanno promossa che viene posta al sindacato l’urgenza e la necessità di indagare in profondità la realtà dei cambiamenti sociali e dei modi con cui le persone si relazionano, si organizzano, ma soprattutto del senso, del significato e del posto che le persone, uomini, donne e giovani danno al lavoro nella loro vita personale, materiale, spirituale, culturale e sociale.

Si tratta di fare uno sforzo per capire come il lavoro è cambiato nel cuore e nella mente di chi lavora. Non bastano più le intelligenti e utili analisi sociologiche e statistiche, o descrizioni futuriste, abbisogna la concretezza con cui il lavoro si incarna e si invera nella vita personale nei suoi aspetti globali, razionali, emotivi e estetici. Poiché solo cogliendo questi aspetti si può contribuire al necessario rinnovamento totale del destino delle persone impegnandole per un “destino comune e di solidarietà”, soprattutto a innanzi a quelle che attualmente appaiono le due grandi sfide verso il lavoro: il cambiamento climatico e la pervasività delle nuove tecnologie e dell’Intelligenza Artificiale nell’umano e nel vivere insieme. ci impongono modelli di organizzazione sociale completamente nuovi. Ormai da diversi anni sta sorgendo un modo di pensare e di pensarsi totalmente differenziato da quello in essere negli “anni gloriosi” dell’espansione sindacale che si orienta oltre la naturale solidarietà propria delle persone al lavoro. Si sta sviluppando oggi una soggettività individuale che tende a esasperare la competitività personale e l’accentuazione esagerata del merito, e diventa perciò necessario che il sindacato riesca a ridefinire il suo futuro, il suo nuovo statuto, il suo fondamento e le ragioni ideali dell’organizzare delle persone.

Oggi serve il coraggio di sperimentare forme di democrazia partecipativa nel lavoro, nell’organizzazione, forme di democrazia deliberativa sulle grandi scelte e per sostenere i confronti istituzionali, modalità di federalismo sociale che valorizzino le strutture di base, di territorio e di categorie. Se la democrazia politica è lo spazio pubblico in cui si mettono a confronto progetti e idee, lo stesso deve essere il sindacalismo che da organizzazione rigida e gerarchica si trasforma in organizzazione aperta e fortemente partecipata. La manifestazione di sabato 16 ottobre non può essere archiviata come colpevolmente abbiamo fatto con molte altre. Ma dev’essere un pungolo perché l’essere antifascista sia foriero di una nuova tensione democratica e di una spinta verso una nuova cittadinanza del lavoro e delle persone.