L’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush pubblicherà a marzo, per l’editore Crown, un libro che conterrà 43 ritratti di immigrati, da lui stesso dipinti. Il libro – i cui proventi saranno donati alle organizzazioni che favoriscono l’inserimento degli immigrati – uscirà in concomitanza con la mostra sul valore dell’immigrazione americana ospitata dal George W. Bush Presidential Center, sito a Dallas, in Texas: qui – dove il Presidente si è ritirato al termine del secondo mandato nel 2009 – sarà possibile visionare le sue opere.

I dipinti di George W. Bush? Il presidente che, dopo l’attacco alle Torri gemelle, diede il via alla guerra in Afghanistan, nel nome della lotta al terrorismo, con l’obiettivo di rovesciare il regime talebano, distruggere Al Qaida e catturare Osama Bin Laden? Lo stesso che poi, nel 2003, non contento, avviò la guerra contro l’Iraq allo scopo di deporre il dittatore locale Saddam Hussein, per una serie di ragioni tra le quali una – la detenzione di armi di distruzione di massa – che si rivelò completamente infondata? Colui che inventò la dottrina Bush – appunto – una sorta di diritto militare di intervento in qualsiasi parte del mondo in cui uno “Stato canaglia” minacciasse di attentare alla libertà e alla democrazia? Lo stesso leader che, nel nome della guerra contro il terrorismo, adottò lo Usa Patriot Act con il quale, in situazioni particolari (vedi Baia di Guntanamo), potevano essere sospesi i diritti civili? Sì, esatto, proprio lui. George W. Bush, l’ultimo presidente guerrafondaio della storia americana è diventato un pacifico pittore amatoriale.

Dopo aver lasciato l’incarico nel 2009, Bush inizia a dipingere, mantenendo segreto il suo nuovo hobby. Ispirato dal primo ministro britannico Winston Churchill, Bush scopre il potere rilassante della pittura e prende lezioni da un insegnante d’arte, alla ricerca del suo “Rembrandt interiore”. Ma i dipinti dell’ex presidente sono diventati pubblici nel 2013, quando l’hacker Guccifer violò l’account di posta elettronica di sua sorella Dorothy Bush. Molti dei suoi ritratti – inclusi quelli di suoi autorevoli colleghi: da Vladimir Putin al Dalai Lama, da suo padre, l’ex presidente George H.W. Bush fino a Silvio Berlusconi – sono esposti nella biblioteca presidenziale a Dallas. Nell’ottobre scorso, il Kennedy Center di Washington ha ospitato una mostra intitolata “Ritratti di coraggio”: uomini e donne – dipinti da Bush – che hanno prestato servizio nelle forze armate statunitensi dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Sbaglieremmo, però, ad archiviare la pubblicazione di questo libro tra le pagine culturali. Basta leggere il titolo: Out of Many, One, traduzione del sacro motto E Pluribus Unum, quello che ispira gli americani dai tempi della Dichiarazione di Indipendenza.

Gli Usa sono un paese mosaico fatto di immigrati, una composizione di tessere diverse – più o meno riuscita – provenienti dall’Europa, dall’Africa e dall’America del Sud. Proprio a partire da questo miscuglio di origini, il senso di unità ha un valore e una potenza quasi religiosi. D’altro canto, come potrebbe sopravvivere un paese originato dalle diversità se non attribuendo all’unità il senso di una religione costituzionale? Anche Bush, conservatore e repubblicano, è fortemente intriso di questa cultura. Nella presentazione del suo prossimo volume si legge: “Attraverso potenti ritratti a quattro colori e le loro storie di accompagnamento, Out of Many, One ci ricorda gli innumerevoli modi in cui l’America è stata rafforzata dagli individui che sono venuti qui in cerca di una vita migliore”. Nell’introduzione del libro, Bush esprime la speranza che le sue opere potranno aiutare a fare dell’immigrazione una questione unificante ed edificante. “Riconosco che l’immigrazione può scatenare reazioni emotive, ma rifiuto la premessa che sia una questione di parte. È forse la più americana delle questioni, e dovrebbe essere quella che ci unisce”, scrive Bush. “La mia speranza – aggiunge – è che questo libro aiuterà a focalizzare la nostra attenzione collettiva sull’impatto positivo che gli immigrati producono sul nostro Paese”.

Pronunciate nel Paese di Martin Luther King, John Lewis, Malcom X e tanti altri, queste parole sono la dimostrazione che i valori dell’unità e del rispetto delle diversità non sono solo il patrimonio della sinistra liberal, ma sono un pilastro fondamentale della stessa identità americana. In più, pronunciate nel paese di George Floyd, dopo che un presidente ha minacciato di mandare l’esercito contro i manifestanti del movimento Black Lives Matter, queste parole rivelano che, perfino nell’America più tradizionale e conservatrice, i messaggi di divisione interna e di astio contro le minoranze sono mal sopportate. Nei mesi scorsi, Bush non ha mancato di esporre critiche (velate) alla Casa Bianca. Già nel 2018, il giorno dopo l’emissione da parte di Trump linee guida restrittive contro i richiedenti asilo al confine Bush dichiarò di essere “turbato” dal dibattito sull’immigrazione in corso negli Stati Uniti. Viceversa, elogiò la storia degli immigrati in America, definendola “una benedizione” per la nazione. In occasione dei funerali di John Lewis, rappresentante democratico al Congresso e storico leader dei diritti civili degli afroamericani, George Bush era presente accanto agli ex presidenti democratici come Barack Obama e Bill Clinton. Così, l’assenza di Donald Trump è stata ancora più evidente e imbarazzante.

Molta parte dell’establishment repubblicano vive con lo stesso enorme imbarazzo la leadership dell’attuale inquilino della Casa Bianca.
Forse a novembre prevarrà la realpolitik di chi cerca la riconferma del seggio al Congresso. Ma qualcosa sta cambiando. Anche nel Texas della famiglia Bush. Qui – dove Trump aveva vinto con 9 punti di vantaggio sulla Clinton e, prima, Romney con 15 punti di vantaggio su Obama – i sondaggi danno un pareggio tra il presidente in carica e il candidato democratico, Joe Biden. Nel libro Dio salvi il Texas, lo scrittore Lawrence Wright segnala un paradosso: quello di uno Stato che, da un lato, si sposta ancora più a destra, con il rischio di trascinare con sé l’intero Paese, ma che, dall’altro, mostra evidenti segnali di cambiamento del suo corpo elettorale, grazie al ruolo sempre più incisivo giocato dalle minoranze ispaniche, al punto da ipotizzare, in un futuro non troppo lontano, una riscossa democratica.

In pratica, se gli ispanici votassero in Texas al ritmo in cui votano in California, spiega Wright, lo Stato sarebbe già democratico. Chissà se – armato stavolta di tela e pennelli come George W. – il Texas della famiglia Bush, il Texas fondato su petrolio, cotone e bestiame, il Texas dominato da cowboy, pistoleros e petrolieri, il Texas di film come Il Gigante o di telefilm come Dallas non ci dia qualche grossa sorpresa alle elezioni presidenziali di novembre.

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