Il Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre, svoltosi sotto la presidenza semestrale della Germania, conclude un anno eccezionale per l’Unione. Come ricorda il quotidiano spagnolo El Pais, l’Ue “accelera il suo grande balzo federale”. Con il via libera al Next Generation Eu del valore di 750 milioni di euro, infatti, si consente per la prima volta una forma di mutualizzazione del debito: la Commissione può indebitarsi sui mercati a nome di tutti.

Il bilancio settennale raggiunge così la cifra incredibile di 1,8 trilioni, quasi raddoppiando gli stanziamenti precedenti. È l’ultimo tassello di un mosaico di interventi per l’economia dei paesi membri che, partito nella primavera su impulso della crisi sanitaria, annovera i nuovi crediti della Banca europea per gli investimenti, il programma Sure per finanziare meccanismi di protezione a sostegno dei disoccupati, la nuova linea pandemica del Mes. E a tutto ciò vanno aggiunti gli ulteriori 1.800 miliardi che la Bce ha messo in campo per acquistare obbligazioni pubbliche e private. Insomma, una quantità di risorse mai vista nella storia dell’Europa, dai tempi del Piano Marshall.

Quali sono i fattori chiave di questi pacchetti? Certamente la loro dimensione senza precedenti e l’utilizzo di Eurobond, in gran parte in virtù dell’emissione di debito congiunto. Circa 40 miliardi sono stati collocati già da ottobre, quasi la metà rientrano nel programma Sure. Proprio per questo programma, secondo l’agenzia Bloomberg, Bruxelles ha ottenuto una domanda 14 volte superiore, di più di 230 miliardi di euro. L’Esecutivo comunitario prevede di emettere nei prossimi quattro anni fino a 850 miliardi di euro derivanti da Sure e dal Fondo europeo per la ricostruzione. La massiccia emissione di queste obbligazioni e l’enorme interesse suscitato tra gli investitori internazionali sui nuovi Eurobond mettono fine alle resistenze dei difensori della vecchia ortodossia e implicano una condivisione del rischio a un livello mai sperimentato in passato.

Così, spinti dalla necessità di affrontare la recessione pandemica e guidati dalle capacità negoziali e decisionali di Angela Merkel, i paesi membri consegnano alla storia un 2020 indimenticabile. Se, alla fine del secolo scorso, era stata la creazione dell’euro a funzionare come meccanismo unificante delle economie europee, oggi è la politica fiscale che diventa il fattore scatenante della federalizzazione. Per di più, il nuovo piano consegna nuovi compiti di natura economica e sociale a tutti i paesi membri: un nuovo modello di crescita basato su Green Deal, digitalizzazione e coesione sociale contro le diseguaglianze.

Molti osservatori leggono in questa dinamica una similitudine con la vicenda che vide protagonisti gli Stati Uniti d’America, a partire dal 1790. Fu il primo segretario del Tesoro, il mitico Alexander Hamilton, a lanciare il debito comune per assorbire i debiti contratti individualmente dalle colonie per finanziare la guerra di liberazione contro la corona britannica. «Se non sarà eccessivo, sarà per noi una benedizione nazionale, un potente cemento della nostra Unione», disse Hamilton di quel debito che fece degli Usa una federazione. Oggi l’Europa non risponde a una guerra ma a una crisi sanitaria. Ecco perché, nei giorni scorsi, il capogruppo del Ppe, Manfred Weber, ha precisato che questa politica è accettabile in casi di emergenza come la pandemia da coronavirus, ma «non può diventare il modo normale di finanziare la nostra vita».

Le parole del conservatore tedesco sembrano tuttavia superate dall’onda della storia. Pure la presidente della Bce, Christine Lagarde, mesi dopo la famigerata gaffe sugli spread, avverte che l’iniezione del piano di ripresa, benché “temporanea”, apre la possibilità di attivare il medesimo strumento contro le crisi future, rendendolo permanente. La sensazione, insomma, è che, con il piano di ripresa contro la recessione economica, l’Unione consolidi definitivamente un bilancio comune con la definitiva trasformazione del progetto comunitario in chiave federale.

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