Le elezioni al Quirinale
Di Matteo entra nella questione Quirinale e prova ad affossare Berlusconi

Avrebbe potuto tagliar corto con una risposta sobria ma secca, alla domanda sulla candidatura di Silvio Berlusconi al Quirinale: “Sono un magistrato e non mi occupo di politica, per me ogni candidato ha il diritto e la dignità per aspirare alla Presidenza della repubblica”. Avrebbe potuto e dovuto dire così, Nino Di Matteo, membro del Csm, intervistato da Lucia Annunziata. Ha preferito invece, come già aveva fatto nella stessa trasmissione due anni fa, entrare diritto in politica come un coltello nel burro, e gli va dato atto di non disperdersi mai in sottili allusioni.
La sintesi è: non mi occupo di politica, però. I “però” sono due. Il primo: poiché chi va al Quirinale diventa anche automaticamente capo del Csm (sarebbe interessante verificare se Berlusconi avrebbe il coraggio di Cossiga, che un giorno mandò i carabinieri), occorre che si tratti di una persona equanime ed equidistante, e che non abbia motivi personali di rancore nei confronti della magistratura. Berlusconi, fora di ball, si direbbe in modo poco elegante a Milano. Ma Nino Di Matteo ha anche nel sangue il suo passato di pm “antimafia” e non può, non riesce a prescinderne. E fargli il nome del presidente di Forza Italia è un po’ come agitare il drappo rosso davanti al toro. Sarà perché in quel di Sicilia hanno provato una e due e tre volte a indagarlo prendendo solo legnate sui denti. Sarà anche perché bruciano a questi pm “antimafia” la sconfitta sul falso pentito Scarantino e quella più clamorosa del processo “trattativa” tra lo Stato e la mafia. Fatto sta che la tentazione di mettere i puntini sulle “i” è forte. E, sebbene Di Matteo sia sufficientemente accorto da non citare inchieste in corso, come quella fiorentina sulle stragi, finisce per aggrapparsi, per l’ennesima volta (Lucia Annunziata dovrebbe ricordarlo) a un presunto caso di estorsione di cui Berlusconi sarebbe stato vittima.
E’ sufficiente andare a pescare nelle carte dell’unica sentenza che ha condannato Marcello Dell’Utri per il reato che non c’è, e di cui si sta occupando la Cedu, cioè il concorso esterno in associazione mafiosa. O anche, in alternativa, aver letto sul Fatto qualche articolo di Marco Lillo, quelli in cui si vaneggia sui fratelli Graviano (ambedue condannati per le stragi del 1992 e del 1993) e sul ruolo di “garante” che l’ex senatore avrebbe svolto, tra il 1974 e il 1992, tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi. Il quale sarebbe stato costretto a versare ogni anno un “obolo” alla mafia per proteggere se stesso, la propria famiglia e le aziende. Ora, ha senso che un magistrato –uno che dice di non aver ambizioni politiche e neanche di carriera, pur con qualche contraddizione- assuma la responsabilità di questo attacco frontale a un personaggio politico che la stessa Annunziata ha definito come “candidato forte, grande protagonista” della storia anche imprenditoriale degli ultimi decenni? Il consigliere Di Matteo sa bene di essersi limitato a raccogliere qualche cicaleccio interessato di “pentiti”, cioè di assassini e mafiosi che ogni tanto fanno quel nome solo perché sanno che fa piacere sentirlo ai pm “antimafia”. Il dottor Di Matteo sa altrettanto bene che non esiste nessuna sentenza nei confronti di Berlusconi in tema di mafia, se non per qualche ipotesi in cui lui sarebbe stato una vittima, come nel processo “trattativa”. Perché allora insiste con questa storia dell’estorsione che lui avrebbe subìto ma rispetto alla quale nessun mafioso è mai stato condannato?
Certi pm si arrabbiano quando scriviamo che fanno politica. Quindi quando il dottor Di Matteo dice che lui non esprime giudizi ma che “il vizio della memoria andrebbe coltivato” che cosa intende dire? Per esempio di aver dimenticato di precisare il fatto che Silvio Berlusconi, benché lui stesso ci avesse provato più volte, in Sicilia non è neanche indagato? Ma che però –l’insinuazione è nostra- si può indurre il sospetto che se hai pagato la protezione della mafia, un po’ mafioso lo sei anche tu? Il discorso del resto è molto esplicito. Secondo il dottor Di Matteo non esiste la guerra tra magistratura e politica, ma solo “l’offensiva unilaterale” di una parte composta da uomini del potere politico economico finanziario e anche magistrati, contro quelli come lui, i “liberi e coraggiosi”, gli onesti che volevano una giustizia uguale per tutti, quelli che hanno indagato e giudicato con sacrifici e spirito di abnegazione. Mai, questi capitani coraggiosi sarebbero stati influenzati dagli scandali, le beghe, le trattative per fare carriera, tutto quello che è emerso nel “Sistema” svelato da Luca Palamara.
Sembra quasi di assistere, nella lunga intervista di domenica pomeriggio, a un pezzetto di Eden, al mondo dei Buoni. Ma siamo così sicuri del fatto che mentre i Buoni erano ancora nella terra di noi mortali peccatori, siano stati del tutto estranei alle normali ambizioni di carriera, anche politica, che vengono negate con tanta sicumera? Ci pare di ricordare per esempio che nel 2018 gli uomini del partito di Grillo avessero offerto proprio al dottor Di Matteo un ruolo di ministro. E non risulta il gran rifiuto. Poi c’è tutta la vicenda del Dap, quella che segnerà anche una rottura (che non osiamo definire politica, se no qualcuno si arrabbia) con il ministro Bonafede, quello che era diventato guardasigilli. Lo stesso che aveva proposto al pm “antimafia” il posto di capo del Dap salvo poi rimangiarsi la parola.
Poi non c’era stata anche l’esibizione per 42 minuti a parlare in una trasmissione tv anche di inchieste in corso e di mandanti delle stragi, cosa che gli costò la cacciata dal pool antimafia? E l’elezione al Csm non era stata sponsorizzata da quel Davigo nei cui confronti era poi stata consumata la vendetta con il voto contrario alla sua permanenza in consiglio anche dopo che aveva raggiunto l’età della pensione? Può farsi che tutto ciò non sia politica. Ma come dovremmo qualificarla? La “guerra di Nino”?
© Riproduzione riservata