Parafrasando Carlo Levi, potremmo dire che Mario Draghi si è fermato a Potenza, città di origine dei ministri Luciana Lamorgese e Roberto Speranza. Nessuno dei 23 membri del nuovo governo è nato più a sud del capoluogo lucano. Anzi, addirittura 18 sono originari del Nord. Davanti a questi numeri, molti analisti si sono stracciati le vesti: che scandalo, l’esecutivo è a trazione nordista! Di qui una polemica che da giorni impazza su social e giornali, a cominciare dal Mattino che due giorni fa parlava di «questione Sud» per sottolineare la prevalenza di ministri settentrionali rispetto ai meridionali. A ben vedere, però, la provocazione non coglie nel segno. E questo per almeno due ordini di motivi.

Il primo l’ha illustrato bene il segretario campano della Uil, Carmine Sgambati, intervistato ieri dal Corriere del Mezzogiorno: «Se guardiamo al Sud, gli interventi sono riusciti meglio quando a pensarli erano uomini del Settentrione». Immediato il riferimento ai settentrionali Alcide De Gaspari e Pasquale Saraceno, ideatori di quella Cassa per il Mezzogiorno che per anni è stata motore dello sviluppo del Sud. Insomma, il luogo di nascita non conta e i ministri vanno giudicati per ciò che concretamente riescono a realizzare per i territori economicamente depressi. L’opinione di Sgambati non fa una piega, per carità. Ma ne sorge spontanea un’altra: che cos’hanno fatto per il Mezzogiorno quei governi composti da un numero consistente di ministri meridionali? Basta una rapida ricerca per individuare l’esecutivo in cui il Sud era più ampiamente rappresentato.

Si tratta nientedimeno che del governo Conte 2, proprio quello che ha fatto posto alla compagine di Draghi. In quel caso, infatti, ben 12 ministri su 22 erano originari di località da Roma in giù, incluso lo stesso (ormai ex) presidente del Consiglio che vanta natali foggiani. Ebbene, che cosa ha prodotto quell’esecutivo per il Sud? Pochino, sicuramente meno di quanto molti si aspettassero. Migliaia di esercenti e di piccoli imprenditori sono stati devastati dalla crisi indotta dal Covid. E se questo è successo, non solo al Sud ma anche nel resto d’Italia, è anche e soprattutto per colpa di un governo che non ha garantito i ristori promessi nei tempi promessi.

Per il resto, nonostante l’impegno dell’allora ministro per il Sud, il sicilianissimo Peppe Provenzano, l’esecutivo Conte 2 non è riuscito a risolvere i grandi nodi che ostacolano lo sviluppo del Mezzogiorno (a cominciare dalla burocrazia, quella che ostacola l’attivazione delle Zone economiche speciali e la decontribuzione per le imprese che assumono al Sud) né a riequilibrare quelle sperequazioni che esponenti politici come il governatore campano Vincenzo De Luca denunciano insistentemente da anni (primo fra tutti il riparto del fondo sanitario nazionale).

La verità è che il Sud è diventato la punta avanzata di una crisi che riguarda tutta l’Italia e che non può essere certo arginata ricorrendo sistematicamente all’arma del rivendicazionismo o a misure-spot. Servono riforme, riforme e ancora riforme, a cominciare da quella della giustizia e dallo snellimento della burocrazia per finire con un grande piano di infrastrutturazione e di riduzione del costo del lavoro. Senza questi interventi, necessari per tutta l’Italia ma addirittura indispensabili per i territori caratterizzati da un tessuto economico-produttivo più fragile, il Sud resterà sempre al palo. A prescindere dalla carta d’identità dei ministri e degli altri membri dei governi.

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.