La questione degli approvvigionamenti energetici blocca l’Unione europea da quasi due settimane. Tanti giorni sono passati da quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato il sesto pacchetto di sanzioni dell’Ue contro la Russia al Parlamento europeo di Strasburgo. “C’è la volontà politica di smettere di acquistare il petrolio dalla Russia e già nei prossimi giorni prenderemo una decisione su un ritiro graduale”, affermano i funzionari europei coinvolti nei negoziati tra i paesi membri.

L’Ue vuole tagliare i suoi finanziamenti per lo sforzo bellico del Cremlino. Si capisce perché. I costi operativi per fare la guerra costano al Cremlino la bellezza di 850 milioni di euro al giorno. E gli incassi provenienti dalla vendita di energia ai paesi europei fruttano alla Russia proprio la stessa cifra: 850 milioni di euro al giorno. Questa semplice relazione numerica spiega bene il senso dell’iniziativa europea. Oggi la Russia esporta due terzi del proprio petrolio nell’Ue. Nel 2021 Mosca ha fornito il 30% del greggio e il 15% dei prodotti petroliferi acquistati dall’Unione. Il conto per le importazioni russe di petrolio era quattro volte superiore a quello del gas, 80 miliardi di dollari contro 20 miliardi. Tra i principali importatori di combustibili fossili dalla Russia (gas, petrolio greggio, prodotti petroliferi e carbone) ci sono paesi chiave come Germania, Italia, Paesi Bassi e Ungheria.

Ma la strada verso i nuovi provvedimenti – che dovrebbero comprendere appunto l’embargo sul petrolio che arriva da Mosca – è ancora piena di ostacoli. Lo conferma Josep Borrell, il capo della diplomazia europea, che, a margine della riunione del Consiglio Affari esteri svolta ieri a Bruxelles, rimarca la “situazione oggettiva” di alcuni Stati membri che dipendono più di altri dal petrolio russo, perché senza sbocco sul mare. I due paesi europei più a rischio sono Ungheria e Slovacchia: non hanno porti e non sono collegati ad alcun gasdotto europeo. Nel loro caso sarebbe necessario costruire nuove infrastrutture (ma in tempi inconciliabili con la necessità di bloccare l’aggressione russa) o trovare alternative. “Dobbiamo riconoscere che l’Ungheria dipende quasi interamente dalla Russia per il gas e il petrolio e dunque dobbiamo trovare anche per loro delle alternative, dobbiamo dimostrare una solidarietà a livello europeo”, aggiunge Frans Timmermans, vicepresidente esecutivo della Commissione europea e commissario al Green Deal europeo. Il punto di partenza è quello di dare un po’ più di tempo ai paesi riluttanti. Ma non basterà. “L’Ue è tenuta in ostaggio da uno Stato membro che non ci aiuta a trovare una soluzione”, denuncia il ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis. Per lui la Commissione europea sta facendo tutto il possibile: “Stiamo parlando di un embargo al petrolio che inizierebbe dal 31 dicembre 2024, dando quasi due anni e mezzo di tempo per riuscirci. Dovrebbe essere sufficiente. E non so spiegare perché non lo sia”, accusa il capo della diplomazia lituana.

Quali sono le misure allo studio per facilitare il più possibile i paesi più colpiti dal provvedimento (tra questi anche l’Italia con riguardo al gas) e che rischiano contraccolpi sulla loro economia? Una delle soluzioni allo stallo potrebbe essere quella di aiutare l’Ucraina a “disaccoppiarsi” dal petrolio e dal gas russi. Le forniture di petrolio all’Ungheria passano proprio attraverso il paese invaso. Così, “se il traffico dovesse essere fermato dall’Ucraina, la questione delle sanzioni sarebbe risolta”, confermano le voci provenienti da Bruxelles. C’è poi un’altra ipotesi, ben più rilevante sul piano politico-economico: immaginare un meccanismo simile a quello del Next Generation Eu, ma dedicato all’energia. “L’accelerazione di cui abbiamo bisogno richiederà ulteriori investimenti”, avverte ancora Timmermans. I fondi specifici dell’Ue sono adeguati, ma se fossero necessari mezzi ulteriori l’insieme degli stati sarebbe chiamato a farvi fronte. Assicura Timmermans: “Ho l’impressione che gli stati membri siano aperti a un’istituzione simile al Next Generation Eu: dopo il Covid abbiamo visto un approccio comune nell’Ue e non escludo che potremo ripetere questa esperienza”.

Inoltre, bisogna evitare che le decisioni europee si traducano in un’impennata globale dei prezzi del petrolio (e, in prospettiva, del gas), che avrebbe effetti controproducenti anche sulle economie occidentali. “Dobbiamo stare attenti con un divieto europeo globale sulle importazioni di petrolio”, ha avvertito il segretario al Tesoro Usa, Janet Yellen, il mese scorso. Il tetto al prezzo del petrolio è stato auspicato anche da Joe Biden nei colloqui con Mario Draghi della settimana scorsa. In questo modo si evita la speculazione e il petrolio resta redditizio, ma dovrebbe applicarsi anche al di là delle economie occidentali. La volontà europea di diversificare le proprie forniture e un calendario da sei a otto mesi per cessare gli acquisti di greggio e prodotti petroliferi russi sono tutti annunci volti proprio a evitare un boom dei mercati. Dal punto di vista dell’Italia, la questione del tetto dei prezzi – per calmierare il forte aumento sui mercati internazionali, che danneggia le imprese e impoverisce le famiglie – riguarda anche il gas. Il governo italiano lo dice da mesi a Bruxelles, contro i paesi del Nord Europa che non vogliono rinunciare alla liberalizzazione del mercato, e all’Olanda che non vuole perdere i profitti della borsa del gas TTF ad Amsterdam. Mario Draghi lo ha ripetuto anche nei colloqui di Washington con l’amministrazione americana. A sostegno del governo si schierano anche anche i big italiani dell’energia.

Nel weekend, gli amministratori delegati di Eni ed Enel, Claudio Descalzi e Francesco Starace, ospiti a un convegno della Lega a Roma, sono sulla stessa lunghezza d’onda: serve un price cap europeo del gas. “Dobbiamo mettere un tetto europeo al prezzo del gas. Se mettiamo un ‘cap’, chi ha la pipeline deve vendere il gas a questo prezzo, che sarà comunque molto più alto di quello di produzione. Ma questa cosa deve essere fatta a livello europeo”, spiega Claudio Descalzi. Secondo l’ad di Eni, il prezzo del gas aumenta a causa di “speculazione, paura, mancati investimenti nell’oil&gas negli ultimi 6-7 anni per i prezzi bassi e per la transizione ecologica (150 miliardi di dollari in meno, -50%), aumento dei consumi di gas da parte della Cina per sostituire il carbone (da 80 miliardi di metri cubi a 400)”.

Gli fa eco Francesco Starace di Enel: “L’aumento delle bollette è conseguenza dell’aumento del prezzo del gas, ed è destinato a rimanere finché non si farà quello che diciamo da tempo, e che il ministro Cingolani ha detto essere la volontà del governo italiano: porre un tetto alla volatilità senza motivo che il gas sta avendo in Europa”. Secondo l’ad di Enel, l’eccessiva dipendenza del nostro paese dal gas russo deriva dal fatto che il metano di Putin ha sostituito quello libico dopo la caduta di Gheddafi. Per Starace, bisogna spingere sulle rinnovabili e sulle pompe di calore elettriche per il riscaldamento, e lasciare il gas solo per le industrie energivore. Sul price cap la linea del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, è chiara da tempo. “Siamo in una economia di guerra. Le regole di pace, dove qualche operatore olandese si arricchisce sul prezzo del gas, non vanno più bene. Il gas ha raggiunto prezzi folli, le imprese e le famiglie non ce la fanno. Domandiamoci quanto questo libero mercato stia funzionando. Occorre fare una riflessione, occorre un calmiere dei prezzi. Noi abbiamo proposto un ‘european price cap’, che tagli i picchi dei prezzi del gas”, ribadisce Cingolani.

Nel frattempo, dopo le rilevazioni di ieri, i prezzi del gas europei sono in lieve calo: sotto i 100 euro per megawattora. Viceversa, le previsioni parlano di un aumento dell’inflazione in Europa pari al 6,1% (per l’Italia +5,9%). Infine, nelle previsioni economiche di primavera – pubblicate ieri – la Commissione europea rivede al ribasso le stime di crescita del Pil per il 2022 sia nell’eurozona che nell’Ue. Anche per l’Italia previsioni al ribasso: dal 4,1% al 2,4%. L’espansione “prolungata e robusta” del post-pandemia è frenata dall’invasione russa dell’Ucraina che esercita “ulteriori pressioni al rialzo sui prezzi delle materie prime, provocando rinnovate interruzioni dell’offerta e una crescente incertezza”. Tuttavia, secondo la Commissione, le riaperture post-lockdown e la forte azione politica per sostenere la crescita durante la pandemia confermano un segnale di ripresa dell’economia.

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