Dieci giorni per sapere se Gazprom staccherà il gas anche all’Italia. Come ha già fatto con Polonia e Bulgaria. È un conto alla rovescia pesante quello iniziato da tempo a palazzo Chigi. Almeno dal 31 marzo quando Putin firmò il famoso decreto per convertire in rubli i pagamenti delle forniture di gas ai paesi europei che importano ogni anno 140 miliardi di mc di gas. Germania e Italia sono tra i paesi più dipendenti dal gas russo. Lo scorso 26 aprile Polonia e Bulgaria si sono rifiutate di saldare in rubli i pagamenti in scadenza. Le forniture ai due Paesi sono state subito sospese. I prossimi pagamenti arriveranno a scadenza nella seconda metà di maggio e tra i primi a scadere c’è il conto italiano.

Il premier Draghi lunedì sera in conferenza stampa e il ministro Cingolani il giorno dopo in una lunga informativa alla Camera hanno spiegato di attendere con ansia e fiducia il parere legale di Bruxelles: è la Commissione infatti a dover dirimere la questione. E spiegare se il pagamento in euro in un conto corrente presso la Gazprom Bank e il successivo trasferimento, nella stessa banca, in un conto corrente in rubli è un meccanismo che viola la sanzioni oppure no. D’altro canto, i contratti di fornitura – tutti in essere e nessuno in scadenza – prevedono come uniche valute possibili l’euro e il dollaro. Pretendere il pagamento nella valuta nazionale sarebbe una palese violazione del contratto. Serve dunque una parola chiara di Bruxelles a cui tutti i 27 possano e debbano fare riferimento.

Non c’è tempo da perdere. E quello che rimane è un tempo pieno di suspence. L’ipotesi dell’interruzione ora, a maggio 2022, della fornitura di gas sarebbe infatti per l’Italia una catastrofe. Come ha detto pubblicamente il ministro Cingolani durante l’informativa alla Camera: «Un’interruzione immediato dell’export russo renderebbe critico il superamento dell’inverno 2022-2023 in assenza di rilevanti misure di contenimento della domanda che ovviamente sono previste e sappiamo anche in che direzione andare». Il governo dunque ha preparato piani di emergenza – da economia di guerra – che spera ovviamente di non dover mai attivare.

Pacchetto numero 6
Occhi e orecchie puntate su Bruxelles. Come sempre, del resto. La partita delle sanzioni economiche alla Russia ha due facce. Ed entrambe cominciano a mostrare i segni della fatica al giorno numero 71 di guerra al momento senza ipotesi di soluzioni diplomatiche. La Commissione ha presentato mercoledì mattina il pacchetto numero 6 di sanzioni. Ursula von der Leyen lo ha illustrato all’europarlamento e poiché oltre al blocco dei beni per gli oligarchi, per il patriarca Kirill, quattro miliardi di patrimonio e colonna portante della strategia di Putin, c’è anche il blocco dell’import di petrolio, l’Ungheria ha subito minacciato il voto contrario. E quindi il blocco di tutto il pacchetto. Per Bruxelles sarebbe una insostenibile dimostrazione di debolezza.

Che poi è esattamente quello che cercano di provare da settimane Vladimir Putin e il suo staff. Così ieri pomeriggio la riunione del Coreper (il comitato dei 27 ambasciatori presso la Ue) è stata sconvocata e riconvocata per stamani. Ieri pomeriggio non c’era ancora l’accordo: perché se Ungheria e Slovenia hanno ottenuto una proroga di un anno (lo stop al petrolio russo dovrebbe scattare tra sei mesi), anche altri paesi hanno alzato la testa chiedendo “compensazioni”. Oggi dovrebbe essere il giorno giusto. E c’è fiducia sul fatto che sarà trovato l’accordo di tutti in modo che il fronte europeo resti compatto come è stato finora (abbastanza).

L’altra faccia delle sanzioni
Sono quelle che la Russia può applicare a noi. Una sola in realtà: lo stop delle forniture di gas. Che se è vero che sono l’unica o quasi voce di guadagno per la casse dello stato (che incassa circa un miliardo di euro al giorno dall’export in Europa e sta già vendendo il 60% in più in Asia), è altrettanto vero che sono talmente importanti da mettere in ginocchio l’economia europea.

Cingolani è stato chiarissimo. Prima ha spiegato il meccanismo del doppio conto corrente. «Si paga in euro e poi la Banca centrale di Mosca in un paio di giorni cambia questi euro in rubli e li deposita su un secondo conto, che è sempre aperto dall’operatore (Eni, Snam o altre compagnie, ndr) che a quel punto dà un ok (con un bonifico). La Russia considererebbe concluso l’acquisto quando viene dato l’ok al pagamento in rubli, mentre per l’operatore europeo in realtà l’acquisto è concluso quando ha ricevuto la fattura in euro». Fin qui sembra tutto chiaro. E la sanzione sarebbe rispettata in punta di diritto.

Ma c’è un “ma”. Il problema sono i giorni, quei due giorni di “traduzione”, di cambio, che vanno legalmente interpretati per capire se rappresentano una violazione delle sanzioni. «È un argomento molto delicato – ha spiegato Cingolani – perché da un lato può succedere che l’operatore, continuando a pagare solo in euro, si possa vedere rifiutato il pagamento e, quindi, possa essere accusato di aver rotto l’accordo relativo al contratto e ciò vorrebbe dire scaricare sull’operatore la responsabilità dell’interruzione. D’altro canto, l’Europa deve dare indicazioni molto chiare agli Stati sul fatto che si possa o non si possa aprire il conto in rubli». Lo logica direbbe no. Il quadro legale non è ancora chiaro. La proposta è di andare avanti, almeno finchè non c’è assoluta chiarezza, “come se le due operazioni sui due conti fossero disaccoppiate”. Senza correre il rischio di violare le sanzioni né di restare senza gas per non aver pagato. Ma si attendono parole chiare da Bruxelles.

Riempire gli stoccaggi
Il fabbisogno italiano di gas è pari a 70-75 miliardi di mc all’anno e dipendiamo al 40% circa da un unico fornitore. Cingolani ha descritto una serie di scenari. A breve e medio termine (12-18 mesi). E uno a lungo termine (2-3 anni). «Nel primo caso – ha spiegato il ministro – ci sono tre priorità: il riempimento degli stoccaggi in previsione dell’inverno 2022/2023; il completamento della campagna di diversificazione degli approvvigionamenti di gas da altri Paesi, sostanzialmente per rimpiazzare i 29 miliardi di metri cubi più in fretta possibile; proseguire con la decarbonizzazione e potenziare lo sviluppo delle rinnovabili per sostituire i famosi 29 miliardi che importiamo dalla Russia».

È chiaro che se a metà maggio ci dovesse essere un’interruzione del gas, le conseguenze saranno assai pesanti. Se non dovesse esserci interruzione, il riempimento degli stoccaggi potrebbe proseguire secondo i tempi dettati dalle aste in corso e la sicurezza energetica sarebbe garantita mentre si perfezionano gli accordi internazionali per la diversificazione degli approvvigionamenti da altri Paesi. Al momento gli stoccaggi sono al 40%. Se la fornitura di gas dalla Russia dovesse interrompersi adesso saremmo nei guai seri perché non sapremmo come affrontare l’inverno. Se un eventuale stop della fornitura di gas russo avvenisse nei prossimi mesi, tutto dipenderà da quando. «Ogni mese stocchiamo circa 1,5 miliardi di metri cubi. Le aste sono in corso e la macchina è partita in anticipo apposta per evitare di trovarci in ritardo. Per raggiungere il 90 per cento di stoccaggio necessario all’inverno 2022-2023 sarebbero necessari circa sei mesi. E per questi sei mesi non possiamo fare a meno del gas russo».

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.