Stiamo affrontando una crisi epocale che sta mettendo a dura prova le nostre strutture sociali, economiche e politiche tradizionali. Alla luce di queste sfide enormi, lei sostiene ancora che il principio di sussidiarietà, cioè il coinvolgimento attivo della società civile, sia la strada maestra per trovare soluzioni? Qualcuno chiede un governo della cosa pubblica forte e interventista….
«Credo che l’individualismo esasperato e la fragilità dei legami personali e sociali siano i fattori fondamentali del malessere di questa epoca. È il motivo per cui ritengo che sia quanto mai necessario diffondere la cultura della sussidiarietà. Cioè sostenere la costruzione di “comunità pensanti”, luoghi di relazione, di incontro, di scambio, grazie ai quali è possibile mettere a sistema il contributo di tutti, che è il senso del principio di sussidiarietà e l’antidoto alla crisi della democrazia. Questo significa un salto di qualità nella capacità dello Stato perché promuova nella società quei corpi intermedi che oltre a produrre risposte ai bisogni, produce nuova socialità. Più società e più Stato».

Eppure perfino la politica sembra promuovere una semplificazione che spinga il baricentro decisamente da una parte, piuttosto che dall’altra. Ne sono permeati anche gli umori della città…
«Pensiamo alla storia di Milano nel Settecento. Un’eccezione nell’epoca dei Lumi che altrove ha sostituito un’ideologia con un’altra, portando violenza e addirittura favorendo il ritorno di imperi. A Milano invece nasce “Il Caffè” e altri luoghi di incontro. È il momento di Beccaria e di Cattaneo, del progresso industriale, e di una Chiesa che si mette a servizio della vita sociale e civile. Verso la fine dell’Ottocento la città dà vita al socialismo riformista con Filippo Turati e Anna Kuliscioff che, ancora attraverso la costruzione di luoghi di dialogo, arricchisce la vita democratica di nuovi strumenti di partecipazione e di tutela delle classi più deboli».

Milano oggi è una città profondamente trasformata e in trasformazione, con una popolazione molto più eterogenea, un’economia orientata ai servizi, nuove forme di disuguaglianza e di esclusione sociale. Su cosa può fare leva per rigenerare il tessuto connettivo e la partecipazione civica?
«A maggior ragione adesso. Con lo strapotere delle multinazionali, con la riemersione di un’oligarchia mondiale autoreferenziale, separata dal tessuto sociale, con le guerre e una situazione globale drammaticamente tesa, si vede il fallimento del thatcherismo secondo cui la società non esiste, ma esistono individui “massimizzanti”. La società è fondamentale perché ci sia la persona e la sua natura relazionale autentica. Piero Bassetti ha introdotto il concetto di glo-Local. La stessa idea contenuta ne “Il terzo pilastro” di Raghuram Rajan, cioè la ripresa delle comunità locali come chiave di affronto della post globalizzazione».

Si globalizzano le criticità, si localizzano gli effetti. L’iniziativa della persona può sembrare troppo piccola per affrontarli…
«Più il mondo diventa grande, massificato, più si ha bisogno di avere luoghi dove ci si sente di vivere. Una giovane famiglia incontrata nel quartiere di Milano dove vivo da poco, mi ha raccontato che si stanno creando momenti di incontro tra famiglie, e che pochi giorni prima una di queste si è avvicinata a loro, vedendo il movimento che si stava creando, per i bambini, al bar, dopo la messa domenicale, dicendo: “Non vedevamo l’ora che ci invitaste”. È l’emergere di questo desiderio, in fondo, il senso della sussidiarietà. Incontriamoci. Io e te. E cerchiamo una soluzione che ora non abbiamo in mente, ma che possiamo trovare insieme».

Vien da dire “ c’erano una volta i corpi intermedi”…
«Si sono ridotti ad essere al massimo delle organizzazioni, perdendo l’anima ideale, cioè perdendo di vista il loro scopo: sostenere le persone nella loro crescita ed emancipazione, tramite un confronto continuo, all’interno e con le novità portate dal mondo. Se la persona diventa un numero o un iscritto, il corpo intermedio muore».

Crisi dell’associazionismo tradizionale e della partecipazione politica attraverso i partiti, ma si moltiplicano iniziative spontanee dei cittadini, comitati, gruppi informali. Segnali contraddittori…
«Dopo la grande ondata di disintermediazione, credo che si stia cominciando a capire che per vivere si ha bisogno dell’altro perché l’altro è un bene. Senza relazione la persona non può esprimersi e crescere. Ad esempio, trent’anni fa sarebbe stato impensabile quello che sta avvenendo: il dialogo in corso da tempo tra realtà di base di Terzo settore, di ogni colore e provenienza, cattoliche e laiche».

C’è un problema di periferie. Non solo di struttura urbana, ma di bisogni, di culture. C’è il centro della metropoli che si apre sempre di più, ma fuori la marginalità finisce per diventare identità. Dietro l’angolo c’è il pericolo del ghetto…
«Il ghetto è anche un luogo di aggregazione, di appartenenza, di organizzazione sociale che può essere molto avanzata. Ogni gruppo può essere un contributo o un ostacolo alla democrazia. Dà un contributo nella misura in cui controlla la conflittualità e soprattutto educa la persona a una visione più ampia e al confronto con altri. Se tiene aperta la ricerca del bene che l’altro, diverso da me, contiene sempre. Se è una comunità pensante. Si parla tanto del disagio nelle periferie. Milano è le sue periferie, che sono in fondo ancora quelle che cantava Enzo Jannacci. Luoghi reali, pieni di contraddizioni e di ferite che fanno male, ma che lui guardava con “pietas”, ironia, coinvolgimento. Anche allora c’era rabbia, come quella che adesso esprimono i trapper. C’era un fermento, anche caotico e aspro, ma che cercava continuamente soluzioni».

Mario Alberto Marchi

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