Incontriamo tante persone nella nostra vita, tuttavia solo qualcuna ci resta dentro: fra queste presenze incancellabili, per quanto mi riguarda, ma credo di essere in buona compagnia, annovero Piero Terracina, uno degli ultimi testimoni della Shoah, scomparso poco più di un anno fa, di cui viene pubblicato ora il testo Pensate sempre che siete uomini (Ponte alle Grazie, pp. 112, 11,40 euro, postfazione di Lisa Ginzburg), il cui titolo, una frase pronunciata dal padre del protagonista ai figli per prepararli alla tempesta che avrebbero attraversato, implicitamente riprende quello del capolavoro di Primo Levi: Se questo è un uomo.

Proprio la tragica morte del grande scrittore, avvenuta a Torino nel 1987, aveva acceso una scintilla in Piero contribuendo a spezzare il suo lungo silenzio, comune a quello di molti superstiti, ammutoliti dagli scempi a cui avevano assistito. Già cinque anni prima, quando la Sinagoga di Roma era stata bersaglio di un attentato terroristico durante il quale, oltre a numerosi feriti, perse la vita un bambino, Gaj Taché, egli meditò di scendere in campo. La goccia che fece traboccare il vaso fu nel 1990 la profanazione di alcune tombe ebraiche nel cimitero provenzale di Carpentras da parte di un gruppo neonazista. A quel punto Piero Terracina ruppe gli indugi e cominciò ad andare nelle scuole a raccontare ai giovani la sua storia.

In questo libretto, punteggiato dagli interventi, partecipi e affettuosi, di Lisa Ginzburg, ne troviamo una breve sintesi: le leggi razziali del 1938 che obbligano il piccolo scolaro a interrompere la frequenza scolastica («La mia insegnante, la maestra, nel fare l’appello non chiamò il mio nome. Soltanto alla fine, concluso di chiamare tutti, mi disse: ‘Terracina, devi uscire, perché tu sei ebreo e non puoi stare con gli altri bambini»); il momento dell’arresto, nell’aprile 1944, dopo una delazione, insieme a tutta la famiglia, compreso il vecchio nonno, prima a Regina Coeli, poi nel campo di smistamento di Fossoli (lì per la prima volta vide un nazista uccidere a sangue freddo, con un colpo di pistola, un deportato, soltanto perché questi non si era tolto il cappello al suo passaggio), infine nel lager di Auschwitz, raggiunto il 23 maggio, dove perse tutti i familiari, a partire dalla madre che ebbe appena il tempo di congedarsi dai figli e dal marito salutandoli sulla rampa di Birkenau: «Disse: “Adesso andate”, poi aggiunse qualche parola che io lì per lì non capii. “Che cosa ha detto, che cosa ha detto?” chiesi a mio fratello. Aveva detto: “Non vi vedrò più”. E non l’ho più vista».

Fra i tanti docenti che, a partire dai primi anni Novanta, invitarono Piero Terracina a parlare ai loro alunni, c’ero anch’io. A quel tempo insegnavo lettere alla Città dei Ragazzi. I miei studenti, italiani ed immigrati, restarono catalizzati dalla potenza rievocativa dell’ex deportato. Al quale venne concessa la cittadinanza onoraria della celebre comunità fondata nel secondo dopoguerra alle porte di Roma da monsignor Carroll-Abbing per accogliere gli orfani privi di supporto e formazione. Un riconoscimento di cui Piero andava fiero. Fu proprio in quell’occasione che divenni amico del prezioso testimone: del resto, mia madre aveva la sua stessa età e, pur non essendo ebrea, fu deportata pochi mesi dopo di lui, in seguito alla fucilazione di mio nonno, partigiano della 36 Brigata Garibaldi, riuscendo a fuggire dal treno alla stazione di Udine il 2 agosto del 1944.

Con Piero avevo quindi molto di cui parlare. E lui rispondeva sempre, preciso e puntuale, ad ogni domanda: non ti lasciava mai a bocca asciutta. Una cosa che lo assillava, per fare un solo esempio, era lo sterminio del popolo rom, avvenuto da un giorno all’altro sotto i suoi occhi di adolescente. Interi gruppi familiari soffocati col gas e bruciati nel giro di poche ore. Fra i tanti ricordi che potrei raccontare nella memoria resta incisa la sera in cui cenammo all’aperto insieme ai miei studenti africani, arabi e bengalesi i quali, minorenni non accompagnati, avevano la sua stessa età quando venne deportato: sedici anni. Erano soli, senza genitori, con una lingua ancora raffazzonata, reduci da guerre e povertà, alla ricerca di un lavoro e di un qualsiasi futuro, proprio come Piero al tempo in cui, scampato allo sterminio, vagabondava nell’Europa distrutta, nel tentativo di salvare la pelle, fra ospedali e consolati, in tutto e per tutto uguale ai personaggi descritti da Primo Levi nel romanzo La tregua.

L’intesa fra i giovani migranti, impegnati a servirci i piatti ai tavoli, che avevano attraversato il deserto del Sahara e le steppe slave prima di arrivare in Italia, e il nostro prestigioso ospite, il quale impiegò dieci mesi prima di tornare a Roma, fu istintiva. Si capirono subito senza bisogno di tante parole. Ci fu un momento in cui l’emozione raggiunse un vertice. Era estate, stavamo in maniche di camicia. Le cerimonie si apprestavano a concludersi. Fra poco avrei riaccompagnato a casa, sulla Portuense, l’anziano conferenziere. Un ragazzetto somalo portò il dolce e nel raccogliere il vassoio Piero mostrò senza avvedersene il numero tatuato sul braccio.

Come leggiamo in quest’ultimo documento: «Ci dissero che il nostro nome non esisteva più e che per qualsiasi cosa… saremmo stati chiamati con quel numero. E che dovevamo rispondere, perché se non avessimo risposto saremmo stati puniti. Ora… il tedesco, chi lo conosceva?… Il mio numero era uno di quelli direi abbastanza semplici, A-5506: ma in quanti modi si può dire A-cinque-cinque-zero-sei? Si può dire cinquemilacinquecentosei, si può dire cinquantacinque-zero-sei, si può dire cinque-zero-sei; si può dire in cento modi, e noi ogni volta potevamo essere chiamati in un modo diverso».

Tanti anni dopo la scritta nera era ancora indelebile fra i peli bianchi. L’occhio del mio scolaro, cresciuto nei frantumi della guerra civile a Mogadiscio, restò qualche secondo in più del necessario sul marchio dell’infamia, di cui nei giorni precedenti avevamo tanto discusso in aula. Ma un conto è spiegarlo in classe. Un altro conto è vederlo inciso sulla pelle. In quell’istante ebbi la sensazione che il ventesimo secolo stesse dando le consegne al ventunesimo: in un lampo da Piero ad Abdel passava la vigliaccheria dei carnefici, di oggi e di ieri, sconfitta dalla gloria dei sopravvissuti.