In questo momento storico, quando i protagonisti della Shoah stanno per dirci addio, le ultime parole di ognuno di loro andrebbero ascoltate e conservate come doni preziosi. I ricordi dei deportati sopravvissuti, vegliardi segnati dal trauma, bambini o adolescenti negli anni terribili del Terzo Reich, dovrebbero essere incisi con l’inchiostro rosso nei registri novecenteschi per frantumare qualsiasi illusione che potremmo ancora nutrire sulla natura umana.

I nostri simili, purtroppo dobbiamo ammetterlo, sono pericolosi: ciò che accadde nel cuore di tenebra dell’Europa nella prima metà del secolo scorso non possiede uguali per ferocia e dimensione tecnologica e potrebbe riproporsi, in forma nuova e diversa, anche oggi.

È la ragione per cui la triste recente vicenda legata alla senatrice Liliana Segre, costretta ad avere la scorta per difendersi dalle minacce antisemite, rappresenta una pagina nera. Quando non ci saranno più quelli come lei, dovranno essere le generazioni venute dopo ad assumersi la responsabilità di rivolgersi ai più giovani. Con una differenza decisiva: mentre i testimoni diretti avevano la naturale legittimità per farlo, noi dovremo conquistare tale condizione. Come? In due modi, entrambi ineludibili: trasformando i luoghi del terrore hitleriano e fascista in musei a cielo aperto e studiando le fonti.

In tale prospettiva dobbiamo interpretare il testamento spirituale che Ginette Kolinka, nata a Parigi nel 1925 e deportata ad Auschwitz a diciannove anni insieme al padre, al fratello e al nipote, ha consegnato a Marion Ruggieri, scrittrice sensibile e pronta a raccoglierlo con taglio stilistico avvincente e personale. Il titolo dell’opera, Ritorno a Birkenau. 78699 (Ponte alle Grazie, traduzione di Francesco Bruno, pp. 89, 12 euro), riprende il numero tatuato sul braccio della giovane donna pochi momenti dopo il suo arrivo sulla famigerata banchina dove gli sventurati venivano divisi fra donne e uomini, bambini e adulti, sani e malati. Chi saliva sul camion andava direttamente al gas e poi nei forni crematori: migliaia e migliaia di esecuzioni a ritmo forsennato.

Gli altri venivano condotti nelle baracche dove potevano almeno sperare di continuare a respirare, anche se le famigerate e periodiche “selezioni” incombevano giornalmente: bastava una ferita non guarita o una semplice malattia per essere eliminati. Ginette, partita dal campo di Drancy come tanti ebrei, deve la vita a una serie di fortuite circostanze, fra le quali il fatto di essere stata deportata nella primavera del 1944, solo un anno prima della fine del conflitto.