Altro che gran ritorno della politica, con una leadership giovane e forte che si insedia a Palazzo Chigi grazie a un mandato popolare esplicito e una coalizione alle spalle che ha i numeri per far dimenticare i tempi grigi della sospensione tecnocratica del parlamentarismo. C’è un grande gioco di finzione nella recita di Giorgia Meloni che riceve l’incarico al Colle ripassando la parte della voce solista accompagnata dal coro di una destra disciplinata sulle dolci note dell’atlantismo.

Che il governo della destra radicale nasca con il compito principale di garantire i vincoli e le appartenenze internazionali in tempo di conflitto bellico contraddice il senso di una anomala campagna elettorale nella quale proprio il tema della guerra apparteneva al campo della grande rimozione. La questione del sostegno all’Ucraina, il tema dell’invio delle armi, le conseguenze delle sanzioni sono stati semplicemente accantonati. Nessuno ha prospettato agli elettori la disponibilità ad accollarsi gli oneri di un’economia di guerra per difendere a qualsiasi costo il principio della lotta infinita accanto a Kiev in nome dei valori della libertà.

E’ paradossale che, dopo il gioco del silenzio, adesso Meloni assuma come missione principale dell’esecutivo proprio l’imperativo della assoluta fedeltà nel fronte bellico accanto alla squadra euroatlantica. Pare evidente che, se quello che nasce è un governo di guerra, esso non ha la maggioranza politica omogenea necessaria per svolgere con coerenza il suo mandato. La fresca conversione atlantica di una Meloni prima profondamente innamorata dei valori morali-religiosi-nazionali del putinismo non cancella le posizioni dissonanti di Berlusconi, le cui denunce della debolezza delle leadership europee e americana raccontavano un puro dato di fatto e non erano voci dal sen fuggite. E soprattutto non smorza gli smarcamenti della Lega, che con il nuovo presidente di Montecitorio denuncia “l’effetto boomerang” delle sanzioni contro Mosca.

In ordine sparso sulle relazioni internazionali (con Berlusconi e Salvini più sensibili al richiamo delle ragioni russe, e con Meloni molto vicina all’estremismo bellico polacco e inglese, con una fuga verso Washington e una lontananza spiccata dagli “usurai di Bruxelles”), le destre hanno vinto alla grande la contesa elettorale perché i tre tenori intonavano la stessa canzone sul fisco. Il guaio è che, mentre gli elettori aspettavano che Roma cominciasse le felici pratiche di una flat tax che la destra tutta, con sfumature e varianti solo tecniche, ha loro promesso, a Londra durava poche settimane l’esperienza di un governo che prometteva anch’esso la detassazione dei ricchi per determinare il formidabile rilancio dei consumi.

Se a Roma qualcuno degli accasati nei nuovi dicasteri si azzardasse davvero a implementare le politiche della tassazione piatta, la risposta dei mercati sarebbe ancora più catastrofica di quanto accaduto alla sprovveduta premier Truss, costretta alla precipitosa fuga dinanzi allo spettacolo poco edificante di un’economia di sua maestà britannica messa brutalmente in ginocchio. Dove la destra italiana è storicamente monolitica, ossia in economia e sul fisco, con le promesse di abbattimento della tassazione, non può muovere un dito, dato che la sorveglianza spietata dei mercati e degli investitori la ricondurrebbe ben presto agli ordini. Dove invece la poco allegra brigata è attraversata da abissali differenze, e cioè in politica internazionale, con la guerra, le sanzioni e la diplomazia, gli eventi la costringono a ripiegare esibendo la frettolosa maschera di un atlantismo di maniera, con il rischio concreto di uno sbandamento spettacolare alla prima occasione critica.

Tutto questo, però, tramuta la coalizione in qualcosa che non è e non può essere: un insolito esecutivo di guerra, cioè una variante di un governo non politico, ma tecnico. L’ipotesi di un collante inedito costituito da un eterogeneo “arco atlantico”, che tanto piace alla grande stampa, è del tutto irrealistica. Conte per un verso guarda ai palazzi, e aderisce alle prove generali di atlantismo censurando Tajani e chiedendone l’inidoneità per il ruolo alla Farnesina, per un altro guarda alla piazza, e incita alla rivolta contro l’invio delle armi in Ucraina. Il centro potrebbe surrogare una parte di Forza Italia di stretta fedeltà berlusconiana, ma la Lega farebbe saltare tutti gli equilibrismi. Neanche il Pd potrebbe mettersi l’elmetto a fianco della patriota, e non perché manchi da quelle parti chi lo farebbe volentieri.

Nasce perciò un governo senza un mandato politico, quello che ha ricevuto il favore dal voto popolare è inservibile e per questo Meloni deve navigare a vista tra le incertezze della guerra. Alla fine le urla di Giorgia, le pose gladiatorie dei suoi quadri nostalgici e le crociate dei leghisti con il rosario decideranno che è più semplice spezzare le reni alle donne, alle famiglie di fatto, ai migranti. Graffieranno qualche dolce simbolo della Repubblica, esibiranno qualche busto del ventennio, inaugureranno qualche cimitero dei feti e poco altro. La politica può attendere. E anche la stabilità appare un lontano miraggio.

Se per Meloni, che riceve l’incarico, il voto di settembre è stato un evento storico accarezzato da una profonda vena di nostalgia, per Berlusconi e la Lega si è trattato di una maledetta vittoria mutilata. Il cammino del governo è per questo destinato alle imprevedibilità dell’attraversamento di un campo minato. La volontà di rivalsa di Salvini nessuno la può spegnere, e non basta la poltrona di Fontana per placare le ire del nord per la perdita di ruolo e rappresentatività. Ma è soprattutto dal sentimento di umiliazione che pervade il Cavaliere che verranno le insidie. Berlusconi ha portato al governo “i fascisti”, come lui li chiama, ma quelli all’epoca erano appunto suoi strumenti. Dal predellino poi ordinò il partito unitario. E nel congresso fondativo una orchestrina mandava ogni cinque minuti la musichetta di “meno male che Silvio c’è”.

Ora che gli tocca invece stare sull’attenti dinanzi alla patriota con gli anfibi, che non intende neppure negoziare sui nomi dei ministeri, a Berlusconi (sempre decisivo nel successo di una irriconoscente destra grazie all’apporto delle trasmissioni militanti di Del Debbio e Giordano) il tutto suona come un affronto inaudito. Non mancheranno le occasioni, una volta assorbiti i colpi della registrazione carpita dalle agenzie, per mostrare al parlamento che di nuovo Silvio c’è. Le élites euroatlantiche e i grandi giornali possono pure lanciare le lodi sperticate per il “decisionismo” ritrovato della donna-soldato premier che ha la lista dei ministri già pronta, ma le sorti dei governi le decidono sempre i giochi della politica, fortunatamente imprevedibili e sempre pronti a presentarsi con un tocco di creatività.