Mi hanno segnalato una trasmissione televisiva di qualche giorno fa (Otto e mezzo, condotta da Lilli Gruber) che non avevo visto e nella quale l’ospite, Nicola Gratteri, ha potuto svolgere indisturbato il suo show, come spesso gli accade, senza che i giornalisti presenti lo disturbassero neppur minimamente, anzi spinto dal tifo dichiarato e appassionato dei miei colleghi. I colleghi in questione sono sicuramente tra i migliori e più prestigiosi giornalisti italiani, e sono noti per la loro preparazione e anche per la loro aggressività, perdipiù sono di opinioni politiche opposte. Di fronte a Gratteri, però, hanno saputo mostrare solo le loro capacità di ossequio. Erano Maurizio Belpietro, direttore della Verità, cioè del giornale di maggior successo di questi ultimi quattro o cinque anni, e Massimo Giannini, già firma di punta di Repubblica e ora direttore della Stampa. Non sono riusciti a pronunciare una sola breve frase – neanche una sola – non dico di critica ma almeno di non plauso al Procuratore di Catanzaro.

Prima di riferirvi brevemente, però, vorrei dirvi di quattro piccole parole pronunciate per ben tre volte di seguito nel giro di pochi minuti, da Lilli Gruber, sempre rivolte al Gratteri. E pronunciate con un ampio e dolce sorriso: “In bocca al lupo”. Per cosa, in bocca al lupo? Per il maxi processo imbastito da Gratteri contro 450 persone circa, in gran parte arrestate su sua richiesta e in parte, per la verità, già scarcerate dal tribunale della libertà o dalla Cassazione per mancanza di indizi. Sono rimasto di sasso. Voi sapete che io sono molto abituato alle posizioni giustizialiste del giornalismo italiano. E anche all’atteggiamento di totale sottomissione alla magistratura di gran parte dei miei colleghi. Però credo che neanche Marco Travaglio, alla vigilia di un processo, per altro dall’esito molto incerto, oserebbe fare l’in bocca al lupo alla pubblica accusa. Come si possono tradurre quelle quattro paroline? Così: “speriamo che i giudici siano clementi con lei e severissimi con gli imputati. Speriamo che il processo si risolva con migliaia di anni di prigione. Speriamo che gli imputati – colpevoli o innocenti – possano essere rinchiusi per sempre nelle celle delle nostre carceri”. L’idea, evidentissima, è che il processo sia una partita giocata tra i buoni, e cioè gli accusatori, e i reprobi, cioè gli imputati e i loro difensori. E che le persone per bene debbano fare il tifo per l’accusa. E che la giustizia vince se ci saranno molte condanne, e perde se ci saranno assoluzioni.

È la quintessenza del giustizialismo. La negazione appassionata e sfrontata e dichiarata dello stato di diritto e persino dei nostri codici.
Ma è anche un’altra cosa, specie se questa posizione viene espressa e difesa da chi rappresenta ai massimi livelli la professione del giornalista: la dichiarazione formale che il buon giornalismo deve evitare la critica e mettersi al servizio dei Pm, e deve fare loro da cassa di risonanza, e mantenere un atteggiamento limpidamente linciatorio verso gli imputati. Cioè verso i colpevoli. A me dispiace. Perché questa è la fine del giornalismo. È anche la fine dell’idea di magistratura alla quale sono fedeli migliaia di bravi magistrati, travolti dall’immagine che i magistrati da ribalta offrono della magistratura, e quindi anche di loro.

Nessuno, nel corso della trasmissione, ha fatto notare a Gratteri che il Pm di un processo a 450 persone, appena iniziato, non può, nel corso addirittura del processo, presentarsi in una Tv e parlare dell’oggetto del processo stesso, cioè, in questo caso, della ‘ndrangheta. Non esiste nessun paese al mondo dove non sarebbe sospeso immediatamente dal suo incarico per un atto di questo genere. Ed esistono migliaia di suoi colleghi che si indignano e si sentono profondamente offesi per questo comportamento.

Purtroppo non c’è nessun giornalista che glielo fa notare. Gruber, Belpietro e Giannini gli sorridevano e basta. Contenti di stare lì e partecipare a questa cerimonia, in parte finalizzata a promuovere il processo, in parte a promuovere due libri del Pm. E quando Gratteri ha detto, testualmente, “Noi che facciamo opinione…”, nessuno lo ha interrotto per chiedergli: ma secondo lei, signor Pm, il compito di un Pm è quello di fare opinione? È uno scandalo questo? No, è solo l’ennesima controprova che la Giustizia in Italia è caduta in una condizione di totale illegalità. E che i vertici della magistratura – come ha dichiarato giorni fa Giovanni Salvi – non intendono tirarla fuori, e anzi pretendono di proclamare l’insindacabilità, il diritto alla sopraffazione, l’impunità assoluta per i suoi membri. Credo che non fosse così neppure ai tempi del fascismo. E i giornalisti? Anche loro, come ai tempi del fascismo, sbattono i tacchi. Signorsì.

P.S. Ieri su Repubblica è apparsa una intervista al giudice Nunzio Sarpietro, che nei prossimi giorni dovrà giudicare Salvini, nell’udienza preliminare del famoso processo che riguarda il comportamento dell’ex ministro dell’Interno nella vicenda del blocco dei migranti sulla nave Gregoretti. Salvini è accusato addirittura di sequestro di persona. Il giudice Sarpietro giura di non avere niente a che fare con Luca Palamara (che aveva detto: “Bisogna andare contro Salvini anche se ha ragione”) né col sistema Palamara, anzi di essere stato danneggiato da questo sistema. E quindi dice a Salvini di stare tranquillo, che il suo giudizio sarà sereno e professionale. L’intervista però solleva due problemi. Il primo problema è proprio l’intervista. È ragionevole che un giudice, alla vigilia di un processo nel quale dovrà emettere una sentenza, rilasci un’intervista che riguarda questo processo, e perdipiù la rilasci a un giornale che ha sempre avuto un atteggiamento colpevolista verso l’imputato?

Il secondo problema è ancora più serio: il giudice Sarpietro dice di essere stato danneggiato dal sistema Palamara. E dunque conferma che questo sistema c’era, che era largo, che danneggiava o premiava ingiustamente i magistrati, forse centinaia di magistrati, e che quindi poteva condizionare le sentenze e, dunque, configurava una situazione di totale illegalità. L’esatto contrario di quello che ha sostenuto Giovanni Salvi, il Procuratore generale della Cassazione, nella sua circolare della quale abbiamo riferito ieri.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.