Nei primi giorni di luglio siamo venuti a conoscenza che 52 tra dirigenti e agenti della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere sono stati raggiunti da misure cautelari – custodia in carcere, arresti domiciliari, interdizione dal servizio – per gravissimi fatti di violenza commessi il 6 aprile 2020 contro i detenuti. La sera precedente avevano inscenato una protesta, rifiutando di rientrare nelle celle dopo avere saputo che tra loro vi era un positivo al covid. La protesta era poi rientrata prima di mezzanotte, ma nel frattempo era stata organizzata per il giorno successivo, sotto il pretesto di effettuare una perquisizione generale, una spedizione punitiva, nel corso della quale i detenuti erano stati sottoposti a un violento e prolungato pestaggio, definito dal giudice per le indagini preliminare una “orribile mattanza”. Il giudice aveva contestato i reati di tortura, lesioni e maltrattamenti aggravati, ma il sottosegretario alla giustizia Vittorio Ferraresi (ministro era Bonafede), in risposta a una interpellanza parlamentare, aveva parlato di “doverosa azione di ripristino della legalità e agibilità”.

Tra marzo e aprile si erano verificati analoghi episodi di violenza contro i detenuti in altri stabilimenti penitenziari, senza suscitare particolare interesse, forse perché il carcere è di per sé un’istituzione violenta e la violenza ne ha sempre contrassegnato la storia. Nei primi anni Settanta del secolo scorso avevo imbastito una ricerca sulla storia delle carceri nello Stato liberale, durante il regime fascista e nei primi decenni della Repubblica, sino alla prima riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, giungendo alla conclusione che il clima di violenza era il principale e costante elemento di continuità. Nel 1904 il deputato socialista Filippo Turati in un discorso alla Camera intitolato “I cimiteri dei vivi” aveva detto: «Le carceri italiane… rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma forse più atroce che si abbia mai avuto: noi crediamo di avere abolito la tortura, e i nostri reclusori sono essi stessi un sistema di tortura la più raffinata…». Trent’anni prima il “Bullettino Ufficiale della Direzione Generale delle Carceri” registrava con puntigliosa precisione una sanguinosa realtà di violenza.

Gli episodi di reazione armata degli agenti di custodia contro i detenuti erano una prassi costante: il condannato disubbidisce all’agente di custodia, lo ingiuria o gli rivolge parole di scherno; la guardia, senza che peraltro vi sia alcun pericolo di fuga o di ribellione, reagisce sparando contro il detenuto, talvolta mirando alle gambe, più spesso colpendolo alla testa e “riducendolo cadavere all’istante”. Talvolta viene per errore colpito un altro detenuto, ma rara è la notizia che l’agente sia stato denunciato all’autorità giudiziaria e quasi sempre la magistratura dichiara non farsi luogo a procedere contro la guardia. Nei primi anni Settanta, dal 1871 al 1874, si contano un morto tra le guardie di custodia e sette morti e numerosi feriti per colpi di arma da fuoco tra i detenuti, senza una riga di commento o di deprecazione da parte del “Bullettino”. Tralasciando il periodo fascista, ancora nel 1954 in una circolare dell’allora ministro della giustizia De Pietro (Presidente del consiglio e ministro dell’Interno Scelba) leggiamo una decisa riaffermazione del carattere afflittivo della pena, che deve inevitabilmente arrecare “sofferenze” e limitazioni alle “esigenze di ordine materiale e spirituale” dei detenuti.

Tornando alla realtà del presente, la violenza contro i detenuti continua a esistere, anche se non viene più esercitata a colpi di arma da fuoco, ma con i pestaggi. È comunque consolante che ora la magistratura intervenga contro le violenze degli agenti di custodia e che la ministra della giustizia Marta Cartabia abbia qualificato la violenze degli agenti di Santa Maria Capua Vetere come “un’offesa e un oltraggio alla dignità della persona”, un “tradimento della Costituzione”, ponendo la “fuga dal carcere” tra gli obiettivi della riforma complessiva della giustizia penale.
In effetti, credo che la prima causa della violenza in carcere sia l’eccessivo numero dei detenuti e il conseguente sovraffollamento, che rende infernali le condizioni di vita negli stabilimenti penitenziari. È evidente che al sovraffollamento non si deve porre rimedio costruendo nuove carceri per aumentare gli spazi della detenzione, come è stato impropriamente sostenuto pochi giorni orsono su la Repubblica (e poi vivacemente censurato su Il Riformista), bensì riducendo drasticamente il numero dei detenuti.

Questo obiettivo comporta interventi a tre livelli: legislativo, in quanto spetta in primo luogo al Parlamento rovesciare l’attuale impianto sanzionatorio che privilegia la pena detentiva, prevedendo nel codice penale per i reati di non particolare gravità una vasta gamma di sanzioni da scontare in libertà; processuale, attraverso il ricorso all’estinzione del reato per la particolare tenuità del fatto sin dalla fase delle indagini preliminari; giudiziario, mediante l’estesa applicazione degli istituti che consentono di evitare di scontare la pena in carcere, quali l’affidamento in prova al servizio sociale, la semilibertà, la detenzione domiciliare. Quale risultato finale dovremmo avere un carcere riservato esclusivamente ai condannati per i reati più gravi e portatori in concreto di un’alta carica di pericolosità sociale, popolato da non più di 10-15.000 detenuti.

È questa la premessa perché negli attuali spazi carcerari possano finalmente trovare applicazione i principi secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione-riabilitazione del condannato, solennemente proclamati dalla Costituzione e da allora rimasti troppo a lungo inattuati per oltre settanta anni.