“Perché abolire il carcere – Le ragioni di No Prison” è il titolo di un libro di recente pubblicazione che Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi hanno scritto insieme sospinti dal vento, che spira sempre più forte, dell’abolizionismo carcerario. Il titolo è perentorio. Induce però a una domanda: perché leggere oggi un libro sull’abolizione del carcere?

Il carcere è cementato nella nostra cultura, nella nostra educazione, nel modo in cui ci siamo socialmente organizzati. È lo strumento con cui ci relazioniamo al “male” e pensiamo di governarlo. È l’appendice, per dirla con Marco Pannella, o l’effetto, per dirla con i meccanicisti, di una “causa” incentrata sull’accertamento della colpevolezza a fronte di ciò che viene considerato reato. È manifestazione, per dirla con Ferrari e Mosconi, di un paradigma ben preciso: quello sanzionatorio, che poi, in fondo, è quello patibolare. Così è stato, così è e così sarà fino a quando la reazione al delitto è penale, cioè una pena.

Pensiamo all’uso delle parole: chiamiamo penale una branca del diritto e penitenziari gli istituti dove mettiamo coloro che priviamo della libertà per un tempo calibrato sul calcolo astratto del danno arrecato. Terrificante! Eppure, all’idea di abolire il carcere ci sentiamo come si sarebbe sentito Tolomeo davanti a Copernico oppure Newton, padre della fisica meccanicista, davanti ai fisici tedeschi Max Planck o Karl Heinsenberg, pionieri della fisica quantistica. In una parola ci sentiamo disorientati. Livio Ferrari e Giovanni Mosconi ci orientano allora verso un “salto di paradigma” che spiegano così: «Si tratta nella sostanza di abbandonare la centralità del reato come fatto negativo che si proietta sulla persona, stigmatizzandola e devastandone soggettività, esperienza e appartenenza sociale tramite l’afflizione detentiva». Occorre invece «riportare al centro la persona, come titolare di diritti, troppo spesso già disattesi prima del verificarsi del reato, come portatore di bisogni e depositario di praticabili e da praticarsi, potenzialità riabilitative. Si tratta evidentemente di una verità diversa rispetto a quella processualmente definita e costruita, che affonda le sue radici ben prima del fatto reato, e che può essere fatta riemergere a pieno, nella sua sostanza e nelle sue potenzialità, nell’approccio alternativo alla punitività penale».

I fautori di un carcere orientato ai principi costituzionali usano dire, a sostegno delle riforme necessarie, che in carcere entra l’uomo e non il reato. È vero. Ma proprio per questo mai farei entrare un uomo in un luogo di privazione della libertà, di isolamento, anaffettivo e afflittivo. È un’illusione riformista quella di voler umanizzare l’inumano. Come con la pena di morte c’è chi non la abolisce ma la infligge in modo “dolce”, non con la sedia elettrica ma con l’iniezione letale, così con il carcere c’è chi pensa di far soffrire con liberalità e dolcezza. Se si vuole davvero contenere la violenza diffusa nella società non vanno usati mezzi violenti, luoghi mortiferi. Non è mai vero che il fine giustifica i mezzi. Al contrario, sono i mezzi che prefigurano i fini: se il fine del carcere è una società meno violenta i mezzi per perseguirlo non possono essere violenti.

La verità è che una società senza prigioni è più sicura, come più sicura è una società senza pena di morte. Noi di Nessuno tocchi Caino amiamo l’ordine e la sicurezza, e non intendiamo lasciare queste parole bellissime a quelli della “legge e ordine”, quelli del potere fine a se stesso, quelli del “disordine costituito” per dirla con Pannella. Il nostro ordine è sinonimo di coerenza e armonia tra idee, sentimenti e comportamenti orientati ai valoro umani universali. Non si tratta di andare alla ricerca di un carcere migliore ma di cercare qualche cosa di meglio del carcere stesso. Abolire il carcere non è un’utopia, è una necessità perentoria della storia che evolve e si eleva a gradi sempre più alti di coscienza. Assecondiamo, grazie anche a questo libro, questo corso.