“Dramma femminicidi, la scia di sangue non si ferma: in 4 giorni due donne uccise e una terza in fin di vita” (La Repubblica 8/9/21). Dalla Sicilia, dove un uomo ha accoltellato a morte la moglie e poi ha tentato il suicidio, alla Sardegna, dove un 42enne ha sparato alla compagna ferendola gravemente e si è impiccato, la violenza maschile contro donne, che fino a poco tempo prima forse avevano amato, non sembra conoscere tregua. Eppure è di questo misto perverso di amore e odio, che si allarga dall’ambito domestico alla grande scena pubblica – come nella tragica situazione delle donne afghane -, che è difficile parlare.

Il fatto che spesso l’aggressore rivolga l’arma contro se stesso non può non interrogarci su un rapporto tra i sessi che, nella sua durata millenaria, ha conservato i tratti di una guerra infinita, sia pure mai dichiarata. Il corpo che lo ha generato, da cui ha ricevuto cure, sostegno, piacere sessuale, in quel prolungamento dell’infanzia che è quasi sempre la vita amorosa adulta, non può essere visto alla stregua di un qualsiasi nemico. Nel passaggio dall’inermità e dalla dipendenza, che caratterizzano l’infanzia di ogni figlio rispetto alla madre, alla posizione di potere e di dominio di un padre, di un fratello, di un marito, e di una comunità storica di uomini, passano sentimenti contraddittori, ambigui, dove la protezione si trasforma facilmente in controllo, la tenerezza in rabbia e sfruttamento, l’appartenenza intima in appropriazione della vita dell’altro.

Della “virilità”, e soprattutto del “virilismo” come costruzione sociale dell’immaginario politico, che tanto peso ha avuto nella storia dell’umanità, poco si parla e ancora meno dei legami che ci sono sempre stati tra la barbarie che passa tuttora all’interno delle case e quella che affligge da sempre le strade del mondo. Fermare l’attenzione sulle donne, viste quasi esclusivamente nella posizione di vittime o eroine di una disperata resistenza, è il modo più rassicurante per allontanarle da esperienze comuni, per non doversi riconoscere in una “normalità” che assomma ai tratti di una “servitù volontaria” quelli di una apparente emancipazione dai ruoli tradizionali. Tacere sugli uomini e sulla violenza con cui si sono per millenni accaniti contro la metà femminile del genere umano e sui loro simili, è un modo per non affrontare la particolarità di un dominio che ha, a suo fondamento, la separazione tra natura e cultura, tra sessualità e politica, tra vita superiore e inferiore, tra il potere che struttura le istituzioni della sfera pubblica e quello che «opera nell’oscurità dei corpi» (Pierre Bourdieu).

Della violenza maschile contro le donne – ha scritto Stefano Ciccone – si parla spesso come una minaccia che viene dall’esterno, opera di culture arretrate o di una patologia individuale. Non è un caso che, soprattutto sui social, le donne afghane tornino ad essere al centro di una contrapposizione che rischia di mettere di nuovo in ombra quella “scia di sangue” che purtroppo avvicina, nella relazione tra i sessi, contesti culturali e politici diversi, una di quelle “permanenze” che sopravvivono ai cambiamenti epocali della storia. Illuminanti, a questo proposito, le parole di Virginia Woolf a proposito della «congiura sociale» che trasforma il privato fratello in un «maschio mostruoso, dalla voce prepotente, dal pugno duro, puerilmente intento a tracciare cerchi di gesso sulla superficie della terra (…) adorno come un selvaggio di piume che assapora il dubbio piacere del potere e del dominio, mentre noi, le “sue” donne, siamo chiuse a chiave tra le pareti domestiche senza spazio alcuno nelle molte società di cui la sua società si compone».

Considerare la violenza manifesta, il femminicidio e lo stupro, come un fenomeno estremo, è un modo facile per lasciare in ombra quei modelli culturali, più o meno consapevoli, che strutturano ruoli e comportamenti di uomini e donne, e che raramente perciò vengono chiamati in causa e analizzati. Più efficace, per prevenirla, sarebbe indagarne le radici profonde, a partire da quelle che armano la mano dell’aggressore, farne l’occasione per rimettere in discussione modelli stereotipati di genere, di socialità, di relazione tra i sessi, dati come “naturali”. Interessante, ma anche discutibile, a questo proposito, è il successo che ha avuto il concetto di “mascolinità tossica”. Ne scrive ampiamente su Il Tascabile il sociologo della comunicazione Manolo Farci. «In questi usi non è importante cosa davvero significhi l’etichetta di mascolinità tossica, è il suo valore evocativo che conta. Menzionarla mobilita un universo morale di appartenenza e permette alle persone di sentirsi parte di un progetto sociale più ampio, il cui obiettivo è chiaro e inequivocabile: sradicare quello che c’è di avvelenato negli uomini. Non a caso, specialmente nel contesto degli Stati Uniti, il concetto è ampiamente promosso in ambito pedagogico».

Da tempo stanno nascendo anche in Italia, sia pure con notevole ritardo rispetto al altri paesi, in Europa e in America, gruppi, centri di ascolto e trattamento psicologico per uomini attori di violenza. Ma non mancano critiche a quella che, affidata a professionisti, rischia di essere una pratica che, medicalizzando e psicologizzando la violenza, finisce per ignorarne le basi culturali, il nesso con le strutture politiche ed economiche che la alimentano. È sempre Farci a sottolineare i limiti del “politicamente corretto”: «Non tenere conto della natura contestuale entro cui si inquadrano le prassi maschili, vuol dire credere che tali prassi siano determinate da tratti universali e che, di conseguenza, il modo migliore per combattere l’oppressione di genere sia invitare gli uomini a mettere in discussione e correggere le proprie condotte private (…) si rischia, come avverte la studiosa femminista Carol Harrington, di coinvolgere gli uomini in una lotta meramente individualista, che mette in secondo piano l’analisi dei privilegi istituzionali e strutturali per ridursi ad un progetto di trasformazione personale, di scoperta di sé».

Si tratta della preoccupazione condivisibile a non ridurre le pratiche di contrasto al sessismo, come fondamento della civiltà che abbiamo ereditato, a una sorta di “confessionale maschile”. Ma altrettanto discutibile è separare i necessari cambiamenti che riguardano la soggettività, quella violenza simbolica che passa invisibile attraverso le vie della comunicazione e della conoscenza, dalle istituzioni, dai saperi e dai poteri su cui si regge da millenni il patriarcato. È questa la lezione di un femminismo che già negli anni Settanta parlava di “modificazione di sé e del mondo”, e che oggi ritrova, nella rete globale Non Una Di Meno, la sua “sfida estrema”: la messa in discussione di tutte le forme di dominio, a partire da quella che ha deciso del destino di uomini e donne.