Lo scorso 16 agosto una delegazione del Partito Radicale e di Nessuno tocchi Caino ha fatto visita al carcere di Catanzaro. Solo alcuni giorni dopo, un detenuto di quell’istituto ci ha scritto per comunicare una notizia triste: la morte di Michele Carosiello, un uomo di Cerignola, di 40 anni, padre di due figlie. Dopo dieci giorni di febbre alta, era stato portato in ospedale, dove è morto di setticemia.

Nelle statistiche ufficiali, il suo decesso sarà classificato come “morte naturale”. Non v’è nulla di “naturale” in quel che accade in carcere ove tutto è volto contro la natura umana, il diritto naturale, la salute, la vita, la dignità umana. In un luogo che è non solo di privazione della libertà ma anche “di pena”, il dolore, la sofferenza, il patimento sono i tratti dominanti, strutturali, istituzionali. Tant’è che continuiamo a chiamare questi luoghi – giustamente! – “luoghi di pena”, “istituti penitenziari” perché quello sono. Luoghi di tortura senza, in linea di massima, torturatori. Strutture concepite e attrezzate per infliggere dolore e sofferenza, alimentare odio, praticare una violenza all’ennesima potenza, perché esercitata sul prigioniero, una persona sottoposta a un dominio pieno e incontrollato del potere dello stato.

Una potenza – spesso – neanche speculare, geometrica, retributiva rispetto al dolore, alla sofferenza, all’odio, alla violenza arrecati dal delitto. Perché in carcere lo specchio è deformante come quello di una galleria degli orrori. La geometria non è euclidea, non ci sono linee, piani, parallele, cerchi fatti col compasso. Tutto è aleatorio, capriccioso, iperbolico, paradossale. In carcere la retribuzione non è neanche quella arcaica e limitativa dell’occhio per occhio: per un occhio cavato puoi esigere al massimo un occhio da cavare per compensare quello cavato. In carcere, invece, te ne cavano due. Letteralmente. Basta vedere la perdita di un senso umano fondamentale, quello della vista, “difetto” comunissimo nelle sezioni del 41-bis, per l’effetto di una visione limitata nello spazio e illimitatamente nel tempo, dove non si vede mai il cielo, l’orizzonte, il sole, la luna, il mare.

Una delle poche note dolci del carcere di Catanzaro è il laboratorio di pasticceria, punto d’orgoglio della Direttrice Angela Paravati, in cui lavorano 10 detenuti dell’Alta Sicurezza, tra cui Francesco Fabio Valenti che ha anche scritto un libro che si intitola Dolci C-reati. Le note amare le sentiamo quando arriviamo nelle sezioni di detenzione. Leggo, ad esempio, dal rapporto che Rita Bernardini e il fedele “stenografo” Gianmarco Ciccarelli hanno inviato al Capo del DAP e al Ministro della Giustizia. G.C., detenuto in sedia rotelle, riferisce di trovarsi in questo reparto da tre anni; la sua cella non è compatibile con la sua condizione; per accedere nel vano bagno è addirittura necessario salire un gradino.

N.S. è gravemente malato, con diverse patologie; pure a lui è in sedia a rotelle ed è stata assegnata una cella con un gradino per accedere al bagno. M.C., detenuto in sedia a rotelle, è stato trasferito nel carcere di Catanzaro appositamente per la presenza del SAI (Servizio di Assistenza Intensificata) e segnatamente per fare l’idrochinesiterapia: «Mi hanno mandato qui per il SAI ma mi hanno messo in sezione normale; mi hanno mandato qui per fare l’idrochinesiterapia ma non si può fare perché la piscina non funziona, non ha mai funzionato». M.C. è in condizioni di estrema fragilità psichica, sta seduto da solo nella saletta della socialità. M.P. riferisce di aver perso un occhio durante la carcerazione: «Vorrei essere curato». G.C. segnala di non ricevere cure adeguate: «Sono cieco, ho il diabete, ho avuto un trapianto al ginocchio e devo essere operato all’anca, vorrei essere curato ma qui ci danno solo tachipirine». F.M. denuncia di non ricevere cure adeguate, ha un’osteomielite e rischia l’amputazione del braccio. F.V. si trova nel SAI da due anni e tre mesi e ha visto un progressivo deterioramento delle sue condizioni: «Sono entrato qui con le stampelle, e adesso sono inchiodato a una carrozzella». A.P. riferisce di essere invalido al 100% e di essere affetto da diabete, morbo di Parkinson, distrofia muscolare e di essere stato operato per due tumori: «Però i farmaci li devo comprare di tasca mia».

Dieci giorni dopo la nostra visita, è arrivata a Nessuno tocchi Caino una lettera dal titolo “Morte annunciata e voluta di un uomo… solo perché detenuto” firmata da Luigi Iannaco e altri 14 detenuti, che scrivono, tra l’altro: «Oggi non è giorno di polemiche, non è giorno di diritti negati, non è giorno di scannarsi. Oggi è il giorno di Michele Carosiello, un ragazzo di 40 anni di Cerignola, entrato in carcere a Catanzaro e morto grazie all’incompetenza, all’arroganza e alla strafottenza di alcuni medici di questo carcere. Niente polemiche, voglio commemorarlo spiegando l’iter della sua morte, poi sarete voi a giudicare di chi sono le responsabilità e chi sono gli assassini di quest’uomo che lascia una moglie e due figlie.  Michele Carosiello inizia ad avere la febbre e si segna dal medico, spiega il suo problema, qualche aspirina e viene rimandato in cella; secondo giorno, la febbre permane, altra visita medica, la febbre continua; terzo giorno, altra visita medica; quarto giorno altra visita medica; quinto giorno altra visita medica; sesto giorno altra visita medica; settimo giorno altra visita medica; ottavo giorno altra visita medica; nono giorno altra visita medica; decimo giorno altra visita medica. La dottoressa dice che si può togliere dalla testa che lo manderà in ospedale. Michele ritorna in cella e riferisce l’accaduto ai compagni i quali iniziano a protestare. Arriva l’ispettore chiama il dirigente sanitario che convince la dottoressa a ricoverare Michele. Due ore dopo Michele è in ospedale, tre giorni dopo Michele è morto per setticemia. Non voglio parlare dell’incompetenza di questi medici, non voglio parlare della tracotanza, non voglio parlare della strafottenza, dell’arroganza, dell’umanità e tantomeno del giuramento di Ippocrate. Oggi commemoro solo un ragazzo morto che la sua famiglia ha avuto il coraggio, l’ardire, e l’umanità di portarlo da morto sotto il carcere per fargli dare l’ultimo saluto da parte nostra. Ho visto quella bara, ho visto la moglie e ho visto due ragazzine che sono le sue figlie, e in quel momento mi sono rivisto in quella bara. Onore e pace a Michele Carosiello.»

Il carcere è diventato ormai un luogo di orbi, di sordomuti, di sdentati, di zoppi, di malati di cuore, di malati di mente. Le carceri sono diventate nosocomi, manicomi, lazzeretti. Le istituzioni totali, i sistemi concentrazionari aboliti dalla storia del diritto e della umanità, li abbiamo tutti ripristinati e concentrati in un luogo solo: il carcere. Questo luogo non solo è inutile, è anche dannoso, non può essere riformato, va abolito, come sono stati aboliti schiavitù, torture, pene di morte, manicomi. Ogni volta che entro in un penitenziario mi assale una sensazione di irrealtà e di nausea, percepisco subito l’anacronismo del momento simbolicamente segnato dagli orologi fermi nei corridoi (in galera tutti gli orologi sono bloccati su un tempo che non coincide con la realtà). Ogni volta che entro in carcere mi coglie un senso di straniamento come quello che può cogliere il viaggiatore in una dimensione fuori dal tempo e fuori dal mondo. Non sono luoghi di rieducazione.

Le carceri sono relitti della storia che oggi dovrebbero essere visitati come si visita un sito archeologico, inabitato dall’umanità, dalla vita, dalla natura umana, mera testimonianza che racconta la civiltà del passato, ormai superata nella storia infinita della evoluzione dei diritti umani verso gradi sempre più elevati di coscienza. Un luogo siffatto non può essere riformato, va solo superato. Inutile andare alla ricerca di un carcere migliore, dobbiamo cercare qualcosa di meglio del carcere. Per dirla, più radicalmente, con Gustav Radbruch e con Aldo Moro: non un diritto penale migliore, ma qualcosa di meglio del diritto penale.