La sorte dei referendum sulla giustizia è appesa a un filo. Inutile far finta di nulla. L’aver trasformato la campagna per la raccolta delle firme in un vaniloquio sulla democrazia diretta e sulla partecipazione popolare non può essere e non sarà forse dimenticato facilmente dalla pubblica opinione. La scelta di non procedere al deposito delle sottoscrizioni in Cassazione e l’aver affidato la celebrazione dei referendum alla richiesta di cinque Consigli regionali di centro-destra è un colpo, non da poco, alle chance di raggiungere il quorum di partecipazione al voto primaverile del 2022 del 50% degli aventi diritto. Se per dirne una a Roma, per l’elezione del sindaco, ha preso parte alle votazioni meno della metà degli elettori romani (48,54%), non si vede perché ci sarebbero da attendere clamorose mobilitazioni per accorrere al voto su complicati quesiti referendari percepiti ormai come a sola trazione leghista. Punto e capo, forse.

Difficile dire se sia un bene o un male. Certo le speranze di quanti contavano in un’accesa campagna referendaria per poter sviluppare un dibattito più ampio sulle questioni della giustizia da canalizzare, poi, nelle aule parlamentari a prescindere dalla sorte dei quesiti, rischiano una grande delusione. Se si affievoliscono i margini di vittoria del fronte del sì, è chiaro che la scelta di tanti sarà l’inabissamento, una coltre di silenzio su tutto. Eppure la stessa Associazione nazionale magistrati si era detta disponibile al confronto, anticipando l’intenzione di rendere il proprio punto di vista ai cittadini in una campagna informativa capillare. Sarebbe stata un’occasione di confronto importante per testare in corpore vivo i sentimenti e le opinioni della gente e farsi un’idea meno vittimistica o meno ottimistica del consenso popolare. L’idea di un flop alle urne potrebbe smorzare ogni entusiasmo da una parte come dall’altra e far mancare al Parlamento l’occasione per riprendere in mano il fil rouge delle riforme sulla giustizia, al momento paralizzato dalle esigenze del Pnrr e dall’iniziativa governativa per darvi sfogo.

L’unica vera battaglia che si profila all’orizzonte è quella per la riforma del sistema elettorale del Csm. Le frizioni tra le correnti dei magistrati sono già emerse e non sarebbe male ricordare ai protagonisti del dibattito la lezione fondamentale impartita da John Rawls, anche in tema di legge elettorali, il quale ammoniva che il decisore dovrebbe poter decidere sotto un velo di ignoranza, in quanto non dovrebbe conoscere quale sia la sua posizione nella società. E ciò gli permetterebbe di avvicinarsi al criterio del maximin, cioè quello che conduce alla decisione che produce il maggior risultato utile dalla peggiore situazione possibile. Al momento si dispone di un sorta di nebuloso obiettivo politico secondo cui la riforma dovrebbe puntare ad attenuare o addirittura cancellare il peso delle correnti nella scelta e nell’elezione dei componenti del Csm. Su questo, a parole, sono tutti disponibili, ma ciascuno immagina un percorso che possa tornargli vantaggioso o, comunque, penalizzarlo al minimo. Insomma tutti vogliono sapere, all’incirca, come andrà a finire nel luglio 2022 quando si voterà per Palazzo dei Marescialli. Comprensibile. Solo che occorre tener conto di una variabile a oggi del tutto fuori controllo: l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. Un secondo mandato a Mattarella non è detto che garantirebbe lo status quo e darebbe continuità al sistema attuale.

Il Quirinale si è mosso in una condizione di estrema difficoltà in questi anni e ha visto fischiare le pallottole dello scandalo Hotel Champagne fino a un passo dal colle più alto. Non è detto che gradisca una legge elettorale conservativa o continuista. Proprio perché ha assistito alla dissoluzione di un pezzo del Sistema, non è detto che si senta rassicurato dalla montagna di polvere messa sotto lo zerbino per altre questioni. Il contatto diretto con Draghi e, soprattutto, con la Cartabia potrebbe spingerlo a chiedere un intervento molto più radicale di quello assemblato dalla Commissione Luciani. Se, invece, avremo un presidente diverso allora lo scenario non è in alcun modo prevedibile. Banale dirlo, ma dipende da chi sarà il prossimo inquilino del Colle che, si ricordi, è anche il capo del Csm. Insomma se il presidente dovesse parlare e intervenire sulla legge elettorale del Csm lo farebbe non a sproposito, ma nella precisa consapevolezza che si starebbero fissando le regole di un consesso che egli presiede e del cui regolare e trasparente funzionamento è direttamente responsabile.

Difficile già in altri campi sottrarsi alla sua moral suasion figuriamoci qualora interloquisca dallo scranno della più alta magistratura della Repubblica. Ecco sarebbe indispensabile e doveroso fornire al prossimo presidente un quadro serio e il più possibile sincero della condizione della giustizia nel Paese; di ogni giustizia, si badi bene, non solo di quella penale più direttamente presa di mira dai referendum. Una volta si chiamavano Stati generali. Non un convegno, né un dibattito, ma la chiamata a raccolta delle posizioni di ciascuno per dare al decisore politico il più fedele quadro della situazione. Insomma tutto tranne che propaganda.