Continua il rapporto ombroso tra la politica e la magistratura. Mentre prosegue il silenzio imbarazzato e imbarazzante del CSM sulle esternazioni del proprio consigliere in carica Di Matteo contro il Ministro della Giustizia (nate a causa di aspettative tradite), la poca limpidezza dei rapporti tra magistratura istituzionale e politica può considerarsi persino peggiorata rispetto alla crisi che ha travolto il CSM mesi orsono. Per superare la crisi della magistratura, ormai sotto gli occhi di tutti, occorre partire dalla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, riforma costituzionale ineludibile. La critica mossa a questa riforma, da parte della magistratura inquirente, si fonda su un dogma: il pubblico ministero sarebbe sottoposto all’esecutivo! Quando viene chiesto perché ed in quale modo, si viene trattati da eretici e non si ottengono spiegazioni, come per ogni dogma degno di accettazione fideistica.

Appare evidente che il problema attuale è l’esatto contrario: la necessità di separare le carriere tra magistratura e politica. Sono proprio alcuni pubblici ministeri che hanno aspettative dalla politica, non create certamente dal nulla, ma nascenti da una serie di rapporti personali e politici che poi portano o alla realizzazione di quelle aspettative con relativi ringraziamenti, o quando vengono tradite a reazioni scomposte come quelle del Dott. Di Matteo. Dunque il pericolo di sottoposizione del pubblico ministero all’esecutivo può nascere solo dai comportamenti di alcuni pm, non certo da una riforma costituzionale che darebbe finalmente in parte attuazione al giusto processo. Basterebbe, per fare smettere la commistione magistratura-politica, interrompere la chiamata dei magistrati nei palazzi della politica e dei ministeri, rimandando le centinaia di magistrati fuori ruolo a lavorare nei tribunali e nelle procure (dove ce n’è un gran bisogno, vista la cronica scopertura degli organici), e sostituendoli con dei professionisti esperti del settore legislativo e legale.

Questo rapporto insano tra politica e magistratura è un tema sempre caldo che in questi giorni è diventato esplosivo. Alcuni partiti politici – su stimolo di chi? – stanno tentando di interferire ancora una volta sulla composizione del CSM, questa volta con alcuni emendamenti, (nientemeno che al decreto per il Covid) al momento dichiarati inammissibili, per allungare di almeno due anni la durata di alcune cariche. Dopo l’estate il Dott. Davigo sarà collocato a riposo per raggiunti limiti di età, e pertanto dovrà decadere dalla carica di consigliere del CSM. Lo dice la legge, lo ha detto il Consiglio di Stato (per un caso analogo), lo dice l’opportunità politica e istituzionale di non avere ancora in carica un consigliere togato non più giudicabile sotto il profilo disciplinare perché in pensione come magistrato (mica come Di Matteo!). Cosa dovrebbe accadere? Al suo posto subentrerebbe il secondo dei non eletti. In un organismo normale sarebbe una inezia non degna di interesse, ma in un organo di rilievo costituzionale che decide sulle nomine degli uffici giudiziari e quindi sull’amministrazione della giustizia è un argomento di grande interesse per il rapporto tra i poteri dello Stato e quindi anche per la nostra democrazia.

Prescindiamo dalle persone, anche perché alcune le vorremmo sempre in TV (ho visto dal vivo il confronto tra Gian Domenico Caiazza e Piercamillo Davigo, e ne vorrei vedere ancora, ma temo non accadrà…). Il problema sono gli equilibri interni del CSM. Il secondo dei non eletti che dovrebbe subentrare al Dott. Davigo non è della corrente di Autonomia e Indipendenza, che quindi vedrebbe diminuire la propria rappresentanza all’interno dell’organo di governo della magistratura a favore di un’altra corrente della magistratura e dunque il proprio peso sulle nomine. Può la politica favorire una corrente, a discapito di un’altra? Può inserirsi nei risultati elettorali del CSM? Può influenzare gli equilibri di rappresentanza? Può creare una norma “ad correntem”? Può incidere sulle future nomine dei capi degli uffici giudiziari?

Perché Partito Democratico e Fratelli d’Italia si sono uniti in questa volontà politica, presentando emendamenti simili? Queste domande, anche un po’ inquietanti nella loro genesi, se l’è poste anche l’Associazione Nazionale Magistrati, con una risposta univoca: no, la politica non può farlo e la magistratura deve dire no. E mentre l’ANM interviene contro qualsiasi favoritismo verso un suo past president, il Consiglio Superiore della Magistratura tace. Tacciono in pubblico anche le correnti, alcune delle quali interrompendo di colpo una certa assidua e scomposta grafomania degli ultimi tempi.