Malgrado lo stato caotico in cui si trova – tra ribellioni e dissidi interni e vertenze giudiziarie – il Movimento Cinque Stelle gode ancora oggi di un seguito relativamente consistente nell’elettorato. Quasi un italiano su cinque (attorno al 18-19%) continua a dargli fiducia e lo indica come scelta di voto nei sondaggi di opinione. Dopo la straordinaria vittoria nelle elezioni politiche del 2018 (in cui ottenne il 32%, conquistando di conseguenza la maggioranza relativa dei seggi in Parlamento) e il rapido declino successivo, ha saputo comunque per ora mantenere un suo seguito non indifferente. E ciò, nonostante la palese incapacità di gestire seriamente responsabilità di governo – a livello nazionale e locale – e la inadeguatezza di molti suoi esponenti. E l’esplodere di conflitti interni.

Come mai? Persistono dunque ancora, in certi strati dell’elettorato del nostro paese, la voglia di ribellione all’establishment tradizionale, l’idea dell’”uno vale uno”, il giustizialismo estremo e gli altri caratteri fondanti del Movimento? In parte sì: la capacità mobilitativa di queste tematiche resta notevole in Italia, come peraltro accade in diversi altri paesi. E sarà interessante vedere chi, dopo i 5S, saprà raccogliere e organizzare questo genere di opinioni e, di conseguenza, consensi. In qualche misura, tuttavia, la motivazione che spinge tuttora un settore di elettorato a scegliere il M5S è soprattutto la percezione – giustificata o meno – di una mancanza di alternative disponibili sul mercato politico, e la convinzione – così spesso manifestata negli interventi sui social da parte degli attuali elettori grillini – che “tanto tutti gli altri partiti sono uguali”.

Ma si tratta di un patrimonio di voti assai fragile. Diversamente dai tempi della Prima Repubblica, le identità di partito – e ancor più quelle elettorali – sono divenute deboli e incostanti: l’elettorato è oggi sempre più fluido e incline al mutamento, specie se stimolato da un’offerta che lo attragga e gli sembri più “nuova” e “diversa”. Per questo, malgrado il permanere sin qui di un seguito comunque consistente, appare necessario per il M5S ritrovare in fretta una sua immagine netta e riconoscibile, anche per l’elettorato attuale. Oggi essa è con tutta evidenza in transizione, da “movimento” a (forse) “partito”. Ma non è detto che questa trasformazione in corso, auspicata da una parte della leadership e (specialmente) degli eletti, piaccia agli elettori residui. Non è dunque sorprendente che, nella fase di mutamento in cui si trova, il M5S incontri, malgrado la necessità di far presto, molta difficoltà a ridefinire la sua identità e il suo marchio nell’ambito di una offerta politica, come quella italiana oggi, insieme complessa e confusa. Una volta che si è dato il segnale di rompere le righe (vulgo: vaffa) è difficile, come vorrebbe il nuovo leader in pectore, Conte, cui – malgrado i dubbi di una parte dei militanti – è stata affidata la transizione dei grillini, dire che: “Siamo un partito che ama le istituzioni liberal democratiche e molto l’Europa” – un po’ come Emma Bonino.

Voler costruire a partire dalla rabbia delle origini, come approdo, una istituzione, cioè un partito, non necessariamente paga. Tanto che con il mutamento che vorrebbe perseguire, il M5S rischia di perdere anche il consenso residuo che gli è rimasto. È ciò che temono Casaleggio e Di Battista. Insomma, Conte ha certo una sua immagine ed un suo importante seguito di fan, ma ha anche qualche serio problema a convincere la vasta area degli ex-grillini a trasformarsi in suoi supporters. Gli elementi in grado di tenere insieme Conte, gli elettori e gli eletti dell’ex M5S costituiscono l’ostacolo principale con cui si scontra la trasformazione antropologica del possibile partito nuovo. Certo, l’avvocato di qualche cosa che prima si chiamava il popolo e ora la scelta per l’Europa, a nome dello stesso popolo, è stato abilmente capace di traghettare il M5S dal governo di un nemico come la Lega ad un altro come il Pd e infine al sostegno del governo Draghi. Ma ora il salto, come ha osservato, con qualche ragione, Casaleggio jr., consiste nel passare dal ruolo di mediatore a quello di capo politico, di un partito di cui non ha mai fatto parte ed al quale non è ancora iscritto.

La sfida di Conte, si parva componere magnis, rassomiglia a quella di Deng Xiaoping che, mentre suggeriva di capovolgere il sistema maoista, parlava seduto con alle spalle una grande immagine di Mao. Questa pretesa continuità può forse convincere una parte del “popolo” grillino, ma lo può fare difficilmente con gli eletti del 2018. Della falange che tre anni fa ha occupato un gran numero di scranni (non di poltrone, per favore) del Parlamento, dopo la – da loro voluta – decimazione dei rappresentanti, pochissimi resteranno nel nuovo mini Parlamento. Un grosso problema per Conte è cosa fare di questi, oltre che di “Rousseau”, che Casaleggio controlla come una specie di proprietario assoluto. Due nodi che sono come lacci che paralizzano i movimenti di Conte: innanzitutto, il rapporto con la piattaforma, simbolo mitologico della democrazia diretta frequentata da un piccolo numero di militanti (il popolo) e, poi, il futuro degli eletti del 2018, in grande parte senza futuro di rappresentanti. Un accordo con il proprietario di Rousseau non è impossibile, poiché Conte ha i voti e Casaleggio jr. la macchina per contarli (quelli degli iscritti). Ma la falcidia degli eletti – post riduzione del numero dei parlamentari – è inevitabile e salvarne alcuni (quelli che non valgono uno) mentre altri scompariranno non rende agevole la rifondazione contiana.

È questo, in spiccioli, quello che rende fra l’altro difficile, per ora alle elezioni amministrative, l’accordo tra un partito che non c’è ancora, il M5S di Conte, ed il PDL (il partito di Letta), che ha bisogno per vincere di un accordo con quello che resta dei 5S. Questi, fra voglia di sopravvivere alla da loro auspicata decimazione e al familismo amorale dell’Elevato (da se stesso) Grillo, sono un partner infido e anche non troppo amato da buona parte del Pd. Zingaretti, infatti, non fidandosi dei 5S alla Regione Lazio ha declinato l’offerta di quella che i sondaggi davano come vittoria sicura al Campidoglio. Per le altre grandi città, se si esclude Sala, cavaliere solo a Milano, indipendentemente dalle difficoltà della quadriglia bipolare (Lega, FdI + Fi versus PD e M5S) a trovare dei candidati comuni, tutto sembra in alto mare. Almeno per ora.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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