L’ “affascinante avventura” – così la definirono Letta e Conte al loro primo incontro due mesi fa – è già finita. Non è stata “affascinante”. E neppure “un’avventura”. È stata un abbaglio. Di cui sono stati probabilmente vittime entrambi, sia Letta che Conte, con la collaborazione di almeno due (inconsapevoli?) consiglieri: Goffredo Bettini e Francesco Boccia. Ora che l’abbaglio è stato smascherato dai fatti – i 5 Stelle non sanno chi sono e meno che mai lo sa Conte – per il segretario dem è urgente correre ai ripari. E smarcarsi da un angolo che non ha cercato ma del cui fallimento, in quanto segretario, potrebbe subire le conseguenze.

In questo quadro va collocata la direzione Pd convocata per ieri mattina. Tra il mea culpa e la mozione dell’orgoglio, il segretario ha deciso di ripartire dal suo territorio, dall’identità del Pd e del suo campo largo di centrosinistra. «L’identità – ha detto – è il cuore della questione. Con una identità debole, qualunque alleanza ci fagociterà». Basta quindi aspettare gli altri, attendere che si chiariscano le idee e nel frattempo perdonarli se ogni tanto perdono la strada. Il Pd è il Pd, è in grado di declinare priorità e linee di governo. Chi è interessato alla sua agenda, prego può favorire. Altre tipo di offerte, non sono ricevibili. «La questione del nostro rapporto con i 5 Stelle è intimamente collegata a questo: se le nostre iniziative saranno coerenti con la nostra identità, saremo in grado di cambiare il quadro politico attorno a noi, quello delle alleanze, e anche di spingere i partiti sovranisti ad avere una atteggiamento più responsabile».

Bye bye 5 Stelle, dunque. Troppo tardi per un ripensamento? Comunque uscire dalla palude 5 stelle è adesso la strada obbligatoria. Così adesso il segretario comincerà a girare il paese e i circoli con il libro L’anima e il cacciavite (ed Solferino) che «è sempre una bella modalità per ricominciare a fare politica come mi piace, sui territori, tra la gente e nei circoli». Ridare “identità al Pd” passa adesso da alcune semplici e chiare mosse. La prima: «Fare propria l’agenda Draghi e chiedere al premier di dare una nuova e chiara missione a questa maggioranza nei prossimi mesi, oltre l’invio del Pnrr e la chiusura della fase vaccinale». Una volta chiarito che l’Italia, secondo il Pd, deve essere il paese disegnato dal Pnrr di Draghi, seguono alcuni snodi identitari: donne, giovani, lavoro, la riforma della giustizia secondo le linee della ministra Cartabia («una terza via rispetto al giustizialismo e all’impunitismo di questi anni salvaguardando l’indipendenza della magistratura») e battaglie sui diritti a cominciare dal ddl Zan. Al di là dei buoni propositi, la prova del 9 del nuovo corso Letta si avrà già nei prossimi giorni quando Draghi porterà in consiglio dei ministri il decreto Sostegni/2, il decreto Semplificazioni e quello per la governance del Pnrr. Li sarà più chiaro dove si vorrà posizionare il Pd.

I 5 Stelle, che sono il motivo della convocazione della Direzione, nella relazione del segretario diventano «altri alleati con cui pensiamo di poter fare in futuro un tratto di strada insieme». Ma «noi siamo il Pd, non ci facciamo dettare l’agenda da nessuno e abbiamo l’ambizione di guidare il paese con una coalizione di centrosinistra attorno». Nel senso che se e quando Conte avrà deciso o gli sarà consentito, per lui e per chi andrà con lui c’è sempre un posto nella coalizione. Tra gli altri. Il segretario non aveva altre strade per provare a contenere il malumore delle truppe parlamentari e nei territori dopo il divorzio imposto dai 5 Stelle per le amministrative di Roma e Torino. Base riformista, gli ex renziani che non vollero seguire Renzi per restare nella “chiesa grande”, aveva fatto sapere a Letta che sarebbe intervenuta in Direzione. Attaccando l’alleanza con i 5 Stelle, una certa subalternità e la scarsa identità politica del Pd. Così è stato. Il messaggio è stato affidato all’ex sottosegretario Alessia Morani. La scelta di una “alleanza strategica” con il M5s «così pervicacemente portata avanti da importanti esponenti del nostri partito» ha «dimostrato tutti i suoi limiti» e ora il Pd deve ripartire «dalla nostra identità, dall’agenda riformista di Draghi e ricostruendo il centro sinistra». Riuscire a mettere da parte, ad esempio, «davighismo e giustizialismo» vorrebbe dire «scrivere un pezzo importante della nostra identità».

Nel dibattito sui 5 Stelle i due alfieri Bettini e Boccia devono leccarsi le ferite. Il primo, che smentisce di aver mai inteso un rapporto «organico e strutturale» (ma ci sono decine di interviste che dicono il contrario) parla di una «fase completamente cambiata» per cui è opportuno che ognuno «definisca meglio il proprio profilo ed identità». Non è un addio, quello di Bettini, perché si augura che «nel dibattito interno nei 5 Stelle possa prevalere Conte» e a quel punto se ne potrà riparlare. Il guaio vero sarebbe «se prevalesse il radicamento populista o il ritorno al dialogo con la destra». Anche Cuperlo auspica «un’operazione verità da parte di Conte» e che a quel punto «almeno una parte possa raggiungere il Pd nel campo largo del centrosinistra».

Ma il problema vero adesso sono le amministrative. E le primarie del 20 giugno. Bloccata la strada a Zingaretti dai 5 Stelle e da Conte, Gualtieri ha davanti sé il rischio di primarie fasulle e di non arrivare al ballottaggio schiacciato da una parte da Raggi e dall’altra da Calenda che ignora l’invito di Boccia (Pd) a partecipare alle primarie. A Bologna è ancora peggio perché il vicesegretario del Pd Beppe Provenzano ha attaccato preventivamente «chi voterà il candidato non del Pd». Riferimento esplicito alla Conti, sindaco di S.Lazzaro di Saevan, molto amata a Bologna ma indicata da Italia viva. Torino è andata. La speranza è ancora di fare un accordo su Napoli. Il tempo è poco. Cuperlo la mette così: «E dai, se ce la fa Mourinho a Roma, ce la può fare anche il Pd».

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.