Beppe Grillo seppe a suo tempo raccogliere tensioni e sentimenti molto diffusi nella società, quali l’indignazione per i numerosi scandali finanziari, la disaffezione verso la classe politica, la protesta contro le ineguaglianze sociali e tanti altri temi, compresa la rabbia anche personale da parte di chi, per vari motivi, si sentiva escluso o tradito nelle sue aspettative dalla società circostante. Il comico genovese, grazie alla sua capacità oratoria e alla semplificazione estrema di tematiche in realtà complesse e spesso fuori dalla portata sua e dei suoi seguaci (sintetizzate nel facilmente risolutivo e al tempo stesso efficace invito a “Vaffa”) riuscì a incanalare il risentimento sociale e farne un vero e proprio movimento politico. Con l’aiuto decisivo della rete, che permise il passaggio dalla mera protesta al movimento organizzato.

Gianroberto Casaleggio è stato il primo esponente politico del nostro paese a intuire già agli inizi le grandi potenzialità sociali e organizzative di internet e a farne un uso sistematico per la mobilitazione. Ma il successo elettorale portò inevitabilmente, dopo i primi tentennamenti, rifiuti e dinieghi, alla necessità di assumere responsabilità di Governo. E qui i Cinque Stelle cominciarono a vedere delle difficoltà. Per vari motivi. Perché, come chi ha avuto responsabilità di gestione politica sa bene, le questioni sono assai più semplici da enunciare e da rivendicare che poi da risolvere operativamente. Perché il personale reclutato, sia pure spesso armato di tanta buona volontà e di grande entusiasmo, si dimostrò in buona misura impreparato di fronte alla complessità dei problemi. E, non da ultimo, perché ai privilegi associati alla carica pubblica e tanto criticati prima di prenderne parte, non è facile rinunciare (da cui anche l’avversione all’ingenua regola dei due mandati).

La partecipazione al Governo ha dunque portato inevitabilmente a una diminuzione della carica di protesta iniziale della leadership dei Cinque Stelle (“apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno”) e, contrariamente a quanto annunciato con grande enfasi, i risultati si sono visti in modo parziale e contraddittorio, data anche la necessità di stipulare delle alleanze per potere governare. Di qui una forte diminuzione del consenso dei Cinque Stelle misurato dei sondaggi, in un trend discendente che non sembra arrestarsi nel tempo e che li ha portati (per ora) a dimezzare il loro seguito (nel momento in cui scriviamo i voti virtuali sono scesi al 16%, a fronte del 32% ottenuto in occasione delle elezioni politiche del 2018) e essere ormai il 4° partito. Ciò ha come conseguenza una crisi profonda, connotata da litigi e intense fratture interne.

Oggi è Giuseppe Conte a tentare un’OPA per ricostruire il consenso perduto o a mettere comunque in salvo il Movimento. Ma riuscirà a farlo? Il compito appare molto problematico. Il più importante punto di forza di Conte, che gioca a suo favore, è che si tratta di un personaggio ancora oggi assai popolare, secondo solo a Draghi nelle classifiche sul consenso ai vari leader e che è particolarmente apprezzato proprio dagli attuali residui elettori rimasti nei Cinque Stelle. Gli si attribuisce una capacità di trascinamento e di persuasione non comune: in passato i Grillini (e a dir la verità anche gli elettori del Pd) hanno fortemente apprezzato il suo taglio comunicativo. Ma il suo tentativo si trascina in lungo, ormai da diverse settimane, e già sono emerse critiche e contestazioni al suo operato da parte di alcune componenti dei grillini.

D’altro canto, la prospettiva di fondare un partito “normale”, come sembra essere nelle ambizioni dell’ex Presidente del Consiglio, comporterà probabilmente una ulteriore perdita dei voti di quella parte della base che rimpiange la protesta (e il principio che “uno vale uno” attuato indiscriminatamente) e cerca altri lidi ove sfogare il proprio risentimento sociale. I quali potrebbero essere offerti dalla coppia Di Battista-Casaleggio, che dispone, oltretutto di un’esperienza e di una capacità di operare sulla Rete, rappresentata dalla Associazione Rousseau, che l’ala “governativa” può far fatica a ricostruire. La contesa tra le due fazioni è finita addirittura nelle mani della Magistratura, che deve definire chi sia il vero rappresentante del M5S. Non è dunque facile prevedere quale sarà il futuro del nuovo Partito dei 5 stelle (ammesso che il marchio resti lo stesso) e del suo nuovo capo politico in pectore. Conte, nel recente incontro di Agorà organizzato da Goffredo Bettini, si è presentato come il federatore e il potenziale leader di un’area ampia che va dalla sinistra radicale dell’“uno vale uno” (la quale non sempre crede alla distinzione fra destra e sinistra) ad un centro moderato. Ma una offerta politica così vasta e per così dire senza frontiere, nella misura in cui non può più essere il punto di riferimento senza ambiguità degli elettori anti-establishment, rischia di diventare poco attraente per quelli che erano ammiratori di Grillo e portatori della sua critica radicale alle istituzioni.

Due difficoltà oltre a questa si pongono sulla navigazione di Conte. Innanzitutto, il progetto di una “piazza grande”, come è stata chiamata da Letta, che includa il Pd insieme al partito di Conte, benvista da un certo numero di eletti dei 5S, produce viceversa forti mal di pancia a molti militanti pentastellati della base. Lo scoglio che si vede già bene sono le elezioni locali del prossimo autunno. Qui non vi è accordo in nessuna delle grandi città per un candidato comune – per il momento nemmeno a Napoli. In secondo luogo, il nascituro Partito di Conte impone al vecchio movimento una sorta di trasformazione antropologica. Che si evince dal modo stesso istituzionale e compito (molto diverso da quello urlato di Grillo) con cui si presenta il leader, sino alla scelta per la democrazia rappresentativa, per il Parlamento e per l’Unione europea. Il che, ancora una volta, forse potrebbe andare bene per una parte degli eletti attuali, vicini all’area “governativa”. Ma non è chiaro quanti elettori della base attuale e passata del M5S saranno disposti a seguire tale mutazione, soprattutto tenendo conto che di qui alle prossime elezioni politiche, in particolare se avranno luogo nel 2023, non sarà facile per l’ex “avvocato del popolo” tener vivo nell’opinione pubblica un consenso che si era costruito attraverso la costante presenza mediatica durante la lotta alla pandemia. La quale fra due anni potrebbe essere un ricordo più o meno sbiadito.

Infine, sarà difficile per Conte (che ha definito esplicitamente il M5S come partito “di sinistra”) schierarsi al tempo stesso per una alleanza con il Pd e dunque con una coalizione di centro-sinistra e abbandonare la non omologazione rispetto alla alternativa destra-sinistra, cifra fondatrice del movimento di Grillo, che sta a cuore ancora a molti potenziali elettori del nuovo partito. Soprattutto se non si andrà a votare con una legge proporzionale che permette ai partiti di essere muti sulle alleanze di governo prima delle elezioni. E una tale legge sembra oggi (domani, chissà) niente affatto plausibile.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

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