Altro che nord, centro e sud. Con quattro “Italie” e tre “Mezzogiorni”, il nostro paese è molto più diverso e complicato di quanto noi stessi lo disegniamo. Le differenze economiche e sociali sono elevate, anche all’interno di regioni che raccontiamo di solito come blocchi compatti. Le domande di sviluppo sono, dunque, molto diverse. E le politiche standardizzate di spesa pubblica possono risultare del tutto inutili o addirittura dannose a seconda del contesto in cui vengono promosse. La ricerca sulle differenze territoriali italiane presentata ieri dalla Friedrich Ebert Stiftung (Fes), la Fondazione di ispirazione socialdemocratica legata alla Spd tedesca, in collaborazione con la Feps, la Foundation for European Progressive Studies, offre una fotografia non banale del nostro paese.

Cinque gli indicatori scelti da Francesco Prota, autore del rapporto e docente di Economia Politica all’Università di Bari, per raccontare le diversità della nostra economia. Primo: il tasso di disoccupazione, l’indice di dipendenza demografica, la quota di occupati nel settore ad alta tecnologia. Secondo: la percentuale di neet, giovani tra i 15 e i 29 anni fuori da istruzione, occupazione o formazione, di persone altamente qualificate e di assistenza dei bambini. Il terzo è un indicatore di prosperità e salute comprensivo di reddito medio lordo, presenza dei medici di famiglia, gap di retribuzione legati al genere, prezzi delle case. Il quarto indicatore comprende l’affluenza alle urne alle elezioni nazionali, gli investimenti in assistenza sociale, le connessioni a banda larga. Infine, è stata calcolata l’incidenza del bilancio migratorio interno, che mostra lo iato tra le aspettative autorealizzative delle persone e le carenze territoriali.

Da questo mix di fattori emergono quattro Italie molto diverse tra loro. In testa le aree con standard di vita più elevati, ma che presentano rischi di esclusione sociale. Un totale di 10 province – pari a circa 12 milioni di abitanti – tra cui Milano, Genova, Trento e Trieste, Roma, le aree urbanizzate della Toscana e della Valle d’Aosta. Qui, la maggior parte delle persone ha istruzione elevata, redditi alti e buon accesso alle infrastrutture. Tuttavia, l’immigrazione preme sul mercato immobiliare e i prezzi delle case sono molto alti. In più, il divario retributivo di genere e il rapporto di dipendenza demografica sono piuttosto elevati. Con conseguenti rischi di esclusione sociale. Vi sono poi le regioni urbane più dinamiche: 35 province, tutte al nord (pari a 20 milioni di abitanti). Qui occupazione, reddito, rendimento scolastico e partecipazione sono superiori alla media e le condizioni di vita più attraenti. Tuttavia, l’immigrazione continua comporta pressioni sui sistemi infrastrutturali e una diversificazione delle opportunità sul mercato del lavoro. I rischi di esclusione sociale sono provocati dall’impatto dell’immigrazione, dall’aumento continuo del costo della vita, dal gap retributivo tra uomini e donne.

La terza Italia è quella centrale, 31 province in tutto con circa 10 milioni di abitanti. È il centro del paese non solo per un motivo geografico ma anche economico. Dotato di un’economia solida, presenta una fisionomia particolare perché si incunea verso sud fino a comprendere la Basilicata e le aree metropolitane di Bari, Cagliari e Messina. I redditi e i prezzi delle case sono leggermente più bassi, minori le connessioni di banda larga. Ci sono più medici di famiglia per persona, il tasso di migrazione è leggermente positivo. Fanalino di coda sono 31 province con sfide strutturali significative: molte regioni del Sud, tra cui Sicilia e Sardegna, ma anche l’area di Imperia al nord. L’emigrazione nel corso dei decenni ha reso queste aree più arretrate: forza lavoro in calo, opportunità educative scadenti, mancanza di investimenti nello sviluppo economico. Il tasso di disoccupazione è relativamente alto, una quota maggiore di giovani non fa parte della forza lavoro, i redditi sono più bassi, tanti continuano ad abbandonare il territorio in cerca di migliori opportunità.

All’interno di questo quadro nazionale, anche il Sud mostra importanti diversità territoriali. «Il Mezzogiorno non è un monolite. Esiste un Mezzogiorno capace di offrire maggiori opportunità occupazionali. Questo grazie a un territorio fertile e vibrante caratterizzato da un tessuto di imprese che non si limita al turismo e all’agricoltura ma comprende anche il settore tecnologico», spiega Francesco Prota. La situazione peggiora negli altri due Sud, fotografati dalla ricerca. Il Sud in ritardo, ma con un potenziale di sviluppo emergente: tutta la Sardegna (tranne Cagliari), la provincia di Messina in Sicilia e le province di Salerno e Lecce sulla terraferma (7 province per un totale di 3,5 milioni di abitanti). Un terzo della forza lavoro dipende ancora da posti di lavoro nel turismo e nell’agricoltura, pochissime persone lavorano nel settore dell’alta tecnologia. La produttività economica è relativamente bassa e il saldo migratorio è negativo.

L’area del Sud più depressa coincide invece con la Sicilia, la Calabria e alcune porzioni di Puglia (Foggia e Barletta/Andria/Trani) e Campania (Caserta) e comprende grandi città come Palermo e Napoli. In tutto 20 province – pari a 12,6 milioni di abitanti – in cui sono alti i numeri dei disoccupati e dei giovani dipendenti dalle famiglie. Altissimi sono i tassi di emigrazione e scarse le infrastrutture sociali come gli asili nido. Un aspetto positivo è la disponibilità di Internet a banda larga spiegato dalla presenza di aree metropolitane ad alta attrattività turistica.
Come influiscono queste informazioni sulle politiche pubbliche?

«Vista l’alta varietà di situazioni territoriali non si può dare una risposta uguale per tutti. Serve una iniziativa composita che tenga conto delle differenze», spiega Prota. Secondo lo studio, gli elementi centrali di questa iniziativa sono tre: il lavoro, gli investimenti pubblici in istruzione e nel sistema sanitario, una strategia nazionale del governo contro le diseguaglianze.

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