Senza governo. Senza pace. E con il rischio che il Paese dei Cedri possa trasformarsi una “nuova Siria”. Il Libano è in pieno caos: politico, istituzionale, sociale. E c’è chi teme, in una Beirut dove la tensione resta altissima, che il caos possa essere l’avvisaglia di qualcosa di ancor più grave: una guerra civile. Ieri sera, il primo ministro libanese, Hassan Diab, ha annunciato in diretta tv le dimissioni del suo governo a seguito della devastante esplosione che la scorsa settimana ha colpito il porto di Beirut e della violenta reazione popolare. Il disastro – almeno 220 i morti, oltre 7mila i feriti, 4.200 edifici distrutti, 300mila gli sfollati – avvenuto martedì scorso a Beirut «è il risultato di una corruzione cronica» in Libano, che ha impedito una gestione efficace del Paese, ha detto. E poi, l’ammissione più grave: «Ogni singolo ministro di questo governo si è impegnato a fondo, non abbiamo altri interessi oltre a quello di salvaguardare lo Stato», ha detto Diab nel suo discorso alla nazione. «Chiediamo un’indagine rapida che accerti le responsabilità e vogliamo un piano di salvataggio nazionale che veda la partecipazione dei libanesi. Ecco perché annuncio le dimissioni di questo governo. Possa Dio proteggere il Libano». Ma la piazza non si accontenta. «Il governo che si dimette non ci basta, perché vogliamo che i responsabili dell’esplosione e di tutto quello che è successo da 30 anni a questa parte siano ritenuti responsabili», dice un giovane. «Solo allora – aggiunge- saremo soddisfatti».
«Il prossimo passo è un governo di salvezza nazionale, che non abbia niente a che fare con la classe politica che ha portato il Libano in queste condizioni disperate, con un mandato speciale per affrontare la crisi umanitaria ed economica», dice a Il Riformista Nadim Khoury, direttore esecutivo della Arab Reform Initiative. «Dovrebbe avere un mandato limitato a due o tre anni, e il suo compito sarebbe quello di preparare le elezioni sulla base di una nuova legge elettorale». «L’attuale classe politica ovviamente non lo accetterà -aggiunge -. Per questo è necessario uno sforzo popolare per rimuovere la “legittimità” dall’ordine attuale fino a quando non si renderanno conto che non possono più governare perché nessuno li ascolta». Commentando le dimissioni del governo, il direttore del Carnegie Middle East Centre, Maha Yahya, rimarca: «I partiti politici sono i garanti dello status quo perché per molto tempo le istituzioni statali sono state la loro gallina dalle uova d’oro. Ora quella gallina è morta e lo Stato è in bancarotta. Ma non hanno altro modo per continuare a offrire favori ai loro elettori». Gli economisti stimano che la ricostruzione di Beirut spazzerà via il 25% del Pil nazionale.
E la panacea di tutti i mali non sembra essere il ritorno al voto. Il problema è che grazie al sistema elettorale basato su quote settarie, i capi delle comunità sono capaci di influenzare i loro elettori. Sciiti, sunniti, cristiani, drusi e tutte le 17 confessioni riconosciute nella Costituzione hanno poca libertà di manovra: di fatto sono costretti a eleggere gli stessi capi-famiglia che negli anni sono diventati capi-mafia, impegnati nel depredare il Libano delle sue ricchezze. In tutta la parte del Paese che si oppone al ruolo crescente di Hezbollah, aumenta l’ostilità per il ruolo sempre più influente che stanno conquistando gli sciiti guidati da Hassan Nasrallah, legati all’Iran. Il fatto che le 2750 tonnellate di nitrato di ammonio depositate al porto fossero in qualche modo sotto il controllo della sicurezza di Hezbollah fa circolare in Libano mille supposizioni sul ruolo dell’ala militare del “partito di Allah” nel custodire quell’enorme deposito di esplosivo. O come minimo di non aver gestito correttamente l’affare assieme agli alleati cristiano-maroniti del partito di Aoun. Lo spettro politico libanese quindi sta tornando a dividersi pericolosamente fra i partiti collegati all’Iran (Hezbollah e il movimento del cristiano Aoun) e quelli legati all’Occidente, in particolare a Francia e Stati Uniti, come i sunniti di Saad Hariri e i cristiani di Geagea e Gemayel. Con la possibilità che ripartano violenti i contrasti settari che non sono mai stati scongiurati.
Ma le elezioni parlamentari anticipate consentirebbero di cambiare la situazione e di offrire finalmente al popolo libanese una prospettiva di uscita dalla crisi? Per gli analisti politici non ci sono dubbi sulla risposta. «È una trappola», dicono a Il Riformista Karim Bitar, direttore dell’Istituto di Scienze Politiche della Saint Joseph University, e Joseph Bahout, che ha appena assunto la direzione dell’Issam Fares Institute dell’American University of Beirut (AUB). «Questa richiesta fatta da alcuni attori del movimento di protesta rischia di rivoltarsi contro di loro», avverte Bahout. «I partiti tradizionali dell’establishment godono di un pubblico prigioniero, nutrito dal culto delle personalità dei signori della guerra. Secondo un sondaggio condotto prima del disastro, il 45% degli elettori ha dichiarato che avrebbe votato per le stesse persone del 2018. Solo un quarto di loro ha detto di essere pronto a cambiare», ricorda Karim Bitar.
«Oggi, il cambiamento potrebbe avvantaggiare alcuni partiti come il Kataëb e l’FL, e figure indipendenti, che beneficerebbero dell’erosione della popolarità del Movimento Patriottico Libero (il cui fondatore è l’attuale capo di Stato libanese, Michel Aoun, ndr) – rimarca Bitar – ma non fino al punto di ribaltare gli equilibri in parlamento». Sulla stessa lunghezza d’onda è il direttore dell’Issam Fares Institute. «Il clima attuale non si presta a un dibattito elettorale – avverte Bahout – che per sua natura divide il Libano. Di cosa parleremo quando il paese sarà in piena crisi e non riusciremo nemmeno a concordare l’ammontare delle perdite? La prima priorità è avere un governo che possa fermare il deterioramento economico e negoziare con il Fmi per far uscire il paese dall’impasse. Solo dopo l’inizio di questo processo si può prevedere un dialogo nazionale su una legge elettorale e la ricostruzione del patto politico».
Ma per la piazza in rivolta il tempo dell’attesa è scaduto. Lo lasciano intendere i manifestanti che, a migliaia, a partire dalle 17:00, si sono radunati davanti alla statua dell’emigrato libanese, di fronte al porto, all’uscita nord di Beirut per dar vita a una dimostrazione di protesta che ha come slogan: “Seppellire prima le autorità”. E anche il giorno dopo le dimissioni del governo, la parola che più riecheggia in piazza è Thawra (Rivoluzione).
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