Marco Furfaro, parlamentare del, portavoce della mozione Schlein. Identità. Una parola che ricorre nel dibattito costituente del “nuovo Pd”. Lei come la declina?
Parliamo di identità perché il Pd in questi anni è stato tutto e il contrario di tutto. C’è bisogno invece di una chiara e netta visione del mondo e di perseguirla con coerenza. Oggi le persone che guardano al PD e alla sinistra non riescono più nemmeno a immaginare che tipo di società abbia in testa. Da una parte abbiamo un mondo che milioni di persone ritengono insopportabile, dall’altro, la destra che li convince che è colpa degli ultimi, dei poveri, delle donne, dei migranti, e che bisogna accanirsi su di loro. La sinistra dove sta? Ecco, identità significa parteggiare per quei milioni che soffrono e ingaggiare un corpo a corpo quotidiano per un’idea di società che non lasci indietro nessuno e che non accetti più quella “cultura dello scarto”, denunciata da Papa Francesco, che questo sistema produce.

Lei ha scelto di sostenere Elly Schlein alle primarie per la segreteria. Cosa l’ha fatta propendere per una candidatura considerata di “discontinuità” col passato dem?
Perché far finta che vada tutto bene è il miglior modo per regalare l’Italia alla destra per i prossimi decenni. Milioni di persone non sono andate a votare o hanno deciso di votare la peggior destra mai vista. Sa perché? Perché ritengono il centrosinistra responsabile della loro condizione precaria. Non riguarda solo i più fragili, ma anche il mondo produttivo e imprenditoriale. Non solo. Faccio parte di una generazione a cui il centrosinistra ha promesso flessibilità e che poi invece si è ritrovato con politiche che hanno tolto diritti, portato ricattabilità e generato una precarietà totalizzante. Per questo si è rotto un legame tra le persone e la sinistra che non si è più ricucito e che ora è dato persino per scontato dalle giovani generazioni. Per anni la sinistra è stata subalterna alla destra. Quando è andata bene ha provato ad arginare politiche predatorie che creano ingiustizia sociale. Ma non basta. Vogliamo una politica che si prenda cura, di sé e degli altri. Che torni a parlare di diritto alla felicità. Infine, c’è un tema che riguarda il partito. Discontinuità significa anche smetterla con l’ipocrisia di trattare gli iscritti come se non contassero niente. Porto ancora le ferite di un’assemblea nazionale in cui, di fronte alle evidenze dei soprusi e delle violenze in Libia, abbiamo deciso all’unanimità di non votare più il rifinanziamento alla guardia costiera libica. Poi in Parlamento si fece l’esatto contrario. Con noi non accadrà più. Bisogna cambiare il modo di selezione i gruppi dirigenti. Le faccio un esempio: Elly non ha trattato niente con nessuno. Ha detto a tutti quelli che pensavano di appoggiarla che non si sarebbe seduta a negoziare ruoli e poltrone. Che avrebbe scelto per competenze, non per pacchetti di voti. I migliori, non i più fedeli. Così ha composto la sua squadra. Per il Pd, mi creda, una rivoluzione. Altri vanno in giro a dire che cambieranno il gruppo dirigente che ha sbagliato tutto, dimenticandosi che ne fanno parte da venti anni.

La guerra e la sinistra. Su questo tema cruciale si è consumata una “rottura sentimentale” tra il movimento pacifista e il Pd. Come recuperare un rapporto?
La mia partecipazione alla politica nasce prima nei movimenti studenteschi e poi nelle grandi mobilitazioni pacifiste contro la guerra. Sono cresciuto dentro la cultura della nonviolenza e in questi mesi sono stato proprio tra coloro che hanno tenuto un filo e un legame con la rete pacifista, anche nella costruzione della grande manifestazione di Roma del novembre scorso. Ma il movimento pacifista sono centinaia di migliaia di italiani, non può essere racchiuso dentro un recinto di partiti o sigle. E tanto meno qualcuno può pensare di strumentalizzarlo come ho visto fare in queste settimane. Tutti coloro che oggi si ergono a paladini della pace hanno aumentato le spese militari o taciuto su altri conflitti scomodi. E anche il mio partito ha inizialmente parlato troppo di guerra e poco di pace, commentando l’errore di votare l’ordine del giorno sull’aumento delle spese militari. C’è un popolo invaso e un invasore. Non ci possono essere dubbi. Come non ci possono essere dubbi sul fatto che ogni popolo ha diritto di resistere nel modo in cui sceglie di farlo e chi ha a cuore la libertà e la democrazia ha il dovere di aiutarlo. Ma questo non significa, come vedo da un gran pezzo della classe dirigente del nostro Paese, arrendersi all’esistente o delegare l’iniziativa politica solamente a Nato o Stati Uniti. Abbiamo il dovere di chiedere un ruolo forte dell’Ue, anche per fare pressione su quei Paesi, come Cina e India, che possono contribuire a fermare il conflitto. Poi, per riconettenersi con quella piazza, serve una sinistra che rilanci il binomio disarmo e pace. Un tema che non vale solo e semplicemente per la guerra in Ucraina, vale come linea politica. La guerra porta guerra. Le armi portano affari per pochi e morte per tanti, non la salvezza dei popoli. Le parole d’ordine del nostro Pd saranno pace, disarmo, no all’aumento delle spese militari, difesa europea. In uno slogan: sosteniamo la resistenza ucraina, ma la pace e il disarmo devono tornare ad essere una linea politica.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.