Cara Elly Schlein,
da tempo avevo in animo di scriverti una lettera aperta. Mi viene spontaneo darti del “tu” per la simpatia che mi ispiri e, aggiungo, per il piacere di conversare con te. Come sai in tedesco la parola “compagno” (Genoss) e la parola “piacere”(Genuss) sono tra loro imparentate. Perché? Banalmente: stare in compagnia è più piacevole che restare da soli. Volevo scrivertela almeno dalla trasmissione “Otto e mezzo” cui hai partecipato circa un mese fa. È una critica sostanziale quella che intendo farti. Perdona il tono a tratti involontariamente paternalista. Lilli Gruber ti chiese a bruciapelo: “Ma tu sei comunista?”. Hai subito risposto – evidentemente schermendoti – che è una domanda insensata essendo nata nel 1985, e dunque non avendo potuto aderire al Partito Comunista. Ora, è evidente che per te quella domanda significava chiederti se eri stata iscitta al PCI, però nella formulazione di Lilli Gruber aveva una implicazione più ampia, anche questo è il sintomo di un disagio, che non è solo tuo. Perfino Giannini, di fronte al tuo precipitoso diniego, si sentì in dovere di dire che il comunismo qualche cosa buona l’ha fatta.

Ma non voglio difendere il comunismo. Anzi. Il problema è un altro, e riguarda il passato, la nostra incapacità di elaborarlo, la totale ignoranza della storia delle idee, del loro percorso spesso accidentato. Proviamo a chiedere a qualcuno se è cristiano. Ci risponderà forse che Cristo è vissuto duemila anni fa, e dunque la domanda è assurda? Siamo tutti -ex, -post, orfani e quasi nati da noi stessi, epigoni e superstiti, postmoderni o postumani. Eppure il comunismo è una delle culture politiche che hanno contribuito a plasmare la nostra Repubblica, anche per l’apporto preponderante dei comunisti alla Resistenza. Oltre al fatto che il marxismo è entrato nel lessico e nelle categorie della modernità. Possibile che un aspirante leader della sinistra, e anzi di un partito che comunque si pone come erede per quanto critico di quella storia, riesca solo a balbettare “Non ero nata”? Norberto Bobbio, padre della sinistra moderna e riformista, osservò che se il comunismo era fallito, creando ovunque fosse andato al potere (dunque non in Italia!) miseria morale e materiale, restava però viva la domanda che il comunismo sottende: una domanda radicale di uguaglianza, giustizia sociale, e condivisione del bene comune (se ne trova una anticipazione perfino nel grande Spinoza, filosofo maledetto e scomunicato: la ragione umana come ricerca della potenza comune!)…

Citando Bobbio io poi sono sempre più convinto che la tradizione “buona” nel nostro paese fu quella di Giustizia e libertà, e poi degli azionisti (i “giusti”, come li chiama Calasso nella sua autobiografia), al netto di certi limiti di moralismo predicatorio, di cui lo stesso Bobbio era consapevole. Una galassia certo ampia e dai confini sfumati, che comprendeva La Malfa e Lussu, per dire. Ma proprio lì ritroviamo un antifascismo antitotalitario, una idea di “rivoluzione democratica” che coincide con l’autogoverno, con la costruzione dal basso di un nuovo ordine, con una cittadinanza attiva e responsabile. Uno degli ultimi rappresentanti di quella nobile tradizione è stato Vittorio Foa, che considero un maestro. Intitolò un suo aureo libretto La Gerusalemme rimandata, contro la vaporosa escatologia comunista (una fede nel futuro attraverso la mediazione del partito) e il costante rinvio al sol dell’avvenire: no, qualsiasi politica deve modificarci (ed educarci) qui ed ora. Veltroni lo frequentò – meritoriamente – negli ultimi anni, tentando una propria annessione fuori tempo massimo a quella tradizione, però l’operazione non riuscì, forse un po’ frettolosa e superficiale. Ci si potrebbe riprovare.

Torniamo al comunismo. Credo che il suo limite principale, dal punto di vista della storia delle idee, sia stato quello di rivendicare un monopolio assoluto della critica all’esistente, screditando altre tradizioni, come quella libertaria e anarchica non-violenta o quella cattolica del dissenso. Probabilmente il giellista e azionista Carlo Levi (che raccontò il tradimento della “sua” Resistenza nel romanzo L’orologio) e Aldo Capitini , inventore della Marcia per la pace, erano assai più “di sinistra” di Togliatti (ma forse perfino Moro e Dossetti che alla Costituente vollero proporre, senza successo, un articolo sulla disobbedienza civile). Proprio per questo abbiamo il dovere oggi di confrontarci con questa complicata vicenda. È in gioco il nostro rapporto con la tradizione. In quale ci riconosciamo? O meglio: in quale parte della tradizione di sinistra? Bisognerebbe dirlo limpidamente. Ad esempio: la stessa tradizione comunista è variegata, fatta sia del partito d’acciao di Lenin, che portava la coscienza alle masse dall’esterno, e sia della democrazia consiliare di Rosa Luxemburg , esaltata poi da un’altra outsider, Hannah Artendt, e a cui si richiamava lo stesso Vittorio Foa.

Possibile che non ti sia venuto in mente niente? Possibile che la parola “comunismo”, al di là degli sciagurati, tragici esperimenti di “socialismo reale” (dai paese dell’Est alla stessa Cuba di Castro: lì non c’è proprio nulla da “rifondare”), non ti evochi almeno quel “sogno di una cosa” citato da Marx in una celebre lettera e che diede il titolo a un romanzo di Pasolini? Insisto su un aspetto. Non si tratta di salvare in blocco il passato, che contiene molte cose, orribili o tra loro antitetiche. Eppure sta a noi scegliere ogni volta a quale passato vogliamo appartenere, e, ancora, individuare quali sono per noi le promesse inadempiute del passato e tentare di attualizzarle. Proprio Vittorio Foa in un incontro pubblico degli anni ’50 con Carlo Levi raccontò un suo sogno, allora Levi lo abbracciò: “Che bello! Non sei più un politico: I politici non sognano e, se sognano, non raccontano i loro sogni”. Mi sarebbe piaciuto che alla trasmissione “Otto e mezzo” anche tu, cara Elly – benché sei una “politica” – avessi raccontato un tuo sogno, magari cercando di rispondere a quella domanda senza eluderla