La vulgata giornalistica vuole che con Elly Schlein, da quasi dieci anni accasata nelle istituzioni anche grazie all’onda lunga della “rottamazione”, il Pd viri finalmente a sinistra e ritrovi di colpo l’intransigenza e le radici da troppo tempo smarrite per colpa del virus contagioso del governismo. E che con Bonaccini, invece, l’ancoraggio risieda tutto nelle pieghe del moderatismo quale tratto di un riformismo di destra (del partito) che nelle grigie amministrazioni locali ha trovato terreno fertile.

Secondo questa ricostruzione, il suo campo d’azione sarebbe in una zona ambigua, dove ad attenderlo troverebbe per giunta lo spettro inquietante di un Renzi redivivo, barcamenantesi dietro le quinte nel ruolo di gongolante regista occulto. Tuttavia, per cogliere le differenze tra i due principali candidati alla segreteria del Nazareno, risulterebbe utile accantonare il “renzometro”, adoperato pigramente sui media per misurare la loro passata distanza o vicinanza dal capo fiorentino. Meglio sarebbe affidare alla storia la ricostruzione dell’età renziana. E muovere, per attingere un’essenziale diversità identitaria tra gli sfidanti, dalla risposta da loro fornita alla stessa domanda dei giornalisti.

Interpellata da Lilli Gruber circa il suo rapporto con la cultura politica comunista, che è una delle due correnti ideali fondative del Pd, Schlein ha balbettato che preferiva non rispondere, essendo nata solo nel 1985. Lei che è venuta al mondo dopo Locke, Constant, Tocqueville non potrebbe dare un giudizio valutativo neppure sul liberalismo. E una stizzita astensione, nel classificare le cose e i movimenti politici, dovrebbe dichiararla anche sulle correnti democratiche o autoritarie sorte prima del fatidico 1985, quando matura il tempo del giudizio. La storia e le culture, però, non iniziano con la propria data di nascita. Non ci sarebbe altrimenti motivo, considerata la rassicurante anagrafe del primo sospiro emesso da Giorgia Meloni, di interrogarsi sulle ricadute del fascismo e cantare in un locale romano, per stigmatizzarle, “Bella ciao”.

Culturalmente più onesto, perché per nulla reticente, si rivela il discorso di Bonaccini. Il quotidiano Italia Oggi gli chiede: “La sua prima tessera è stata quella del Pci. Imbarazzato?”. Avrebbe potuto cavarsela frugando nel repertorio zeppo di amnesie inventato da Veltroni, e invece così risponde: “Sono orgoglioso delle mie origini politiche nel Pci. E’ stata una grande storia. Il Pci è stato un punto di forza della stabilità del nostro sistema politico. Ma ha dato anche una spinta notevole all’alfabetizzazione di tanta gente e difeso le fasce più deboli della popolazione, emancipandole. Ha contribuito alla stesura di una Costituzione che è stata un modello per molti paesi, ha tenuto alto il valore dell’antifascismo”. Non si potrebbe formulare meglio il senso attuale dell’orgoglio comunista, rivendicato da Bonaccini per via degli effetti rilevanti dell’azione del vecchio partito nel consolidamento democratico e civile del Paese. Che Schlein, munita di “zaino e taccuino”, consideri invece una storia ormai morta quel laboratorio di pensiero e di analisi, che legami profondi presenta con i Quaderni di Gramsci, conferma i guasti del nuovismo, il quale alla fatica della riflessione preferisce il gesto, la trovata della comunicazione, che spesso si rivela, per struttura, un chiacchiericcio senza memoria.

C’è del vero nel rilievo secondo cui ad entrambi i candidati manchi ancora una marcata visibilità nel dibattito politico nazionale. Per colmare la lacuna, Bonaccini dovrebbe lavorare anche per ampliare il ventaglio del suo sostegno oltre le soglie del buon governo dei territori. Un dialogo con la sinistra di Orlando e Cuperlo lo aiuterebbe molto nell’arricchimento della proposta politica. Gioverebbe, oltre che alla rassicurazione sulla tenuta organizzativa del partito dopo il congresso, anche al consolidamento della coalizione al suo seguito, che, altrimenti, rischia di pagare il prezzo dell’essere troppo schiacciata, nella geografia interna, attorno all’area di Base Riformista. Le istanze monotematiche (nuovi diritti civili e libertà individuali, giustizia climatica) che Schlein avanza sono una componente essenziale dell’agenda programmatica di tutte le formazioni della sinistra occidentale. Altra cosa, però, è l’effettiva possibilità di tramutare un’importante sensibilità settoriale (ambiente, tematiche di genere) nella cultura politica necessariamente sfaccettata chiamata a dirigere un organismo complesso come un partito.

Già rasenta il paradosso il fatto che una non ancora iscritta al Pd si candidi direttamente alla guida della segreteria. Senza aver avuto un qualche ruolo negli organismi dirigenti, senza aver ricevuto un mandato collettivo dai componenti dell’organizzazione, è possibile che il vento forte dei media accompagni una outsider alla conquista dei galloni della leadership interna. In questo senso, Schlein, osannata dai numerosi media che si mostrano amici come la risoluzione alla malattia mortale del Nazareno, in realtà appare come una manifestazione della decadenza di un partito. Non esiste forza politica in occidente che non sprigioni un visibile senso della partizione. Non si riscontra alcun soggetto rilevante che non avverta la necessità di presidiare la propria autonomia organizzativa dalle interferenze ambientali. E non è data notizia di partiti che non affidino esclusivamente all’apprendimento intra-organizzativo la valutazione dei canali dell’ascesa e della caduta della leadership.

Tra gli osservatori, ci si esercita già nel prevedere l’effetto dissolvente che una vittoria mutilata di uno qualsiasi dei due rivali avrebbe sulla tenuta del Pd. È evidente che una copertura a sinistra servirebbe molto a Bonaccini per conferire un’indispensabile garanzia di gestione unitaria alla sua segreteria. Non è vero che il suo trionfo – a cui dovrebbero nell’immediato seguire le dimissioni da presidente della regione, perché non è ammissibile che il leader dell’opposizione non sia presente in Aula – sarebbe accolto da grida di giubilo nel terzo polo. E’ lampante che, con l’autonomismo del politico emiliano, proprio Calenda vedrebbe ridimensionati sensibilmente gli spazi per un’espansione elettorale e sarebbe costretto a reimpostare le forme della competizione.

Con il successo congressuale di Schlein, e quindi con i paventati rischi dell’indebolimento drastico della matrice ideale-programmatica di un partito di governo, si aprirebbero, invece, dei sentieri vasti per tentare la rinascita egemonica del centro della “serietà”, che al momento si segnala in affanno. Anche Conte (e l’appoggio del Fatto quotidiano sembrerebbe confermarlo) non avrebbe molto da temere dall’eventuale concorrenza dei temi civili e ambientali di Schlein. Potrebbe confidare, al contrario, che dalla possibile fuga verso il terzo polo della residua sinistra di governo esca fuori un Pd così rimpicciolito e smarrito nelle certezze da diventare un agevole spazio di occupazione.