«Per favore e carità di patria, evitiamo una retorica bellicista quando parliamo o scriviamo della lotta al Coronavirus. È sicuramente necessario accettare, disciplinatamente, quelle misure necessarie per contrastare l’epidemia, che però nessuno deve sentirsi autorizzato a definire tutto ciò “guerra”. Chi lo fa non ha mai visto un campo di battaglia o si è trovato in situazioni esplosive». A sostenerlo in questa intervista a Il Riformista è il generale Franco Angioni, già comandante delle truppe terrestri Nato nel Sud Europa e del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri.

Generale Angioni, anche lei è tra quelli che pensano che dopo la crisi pandemica nulla sarà più come prima?
No, non mi unisco a questo coro. Considero questa affermazione una minaccia o una esagerazione alla quale non credo. Non voglio essere semplicista, ma le turbative che normalmente accompagnano le comunità organizzate non producono radicali cambiamenti improvvisi, ma lasciano dei segni, di norma più o meno di carattere sociale, di modesto rilievo. I grandi cambiamenti delle società organizzate abbisognano di fenomeni profondamente radicati di carattere sociale. I grandi cambiamenti in Europa non sono mai avvenuti, in maniera evidente, che a seguito di turbative di carattere sanitario: ad esempio, immediatamente dopo la prima Guerra mondale, si scatenò una epidemia chiamata, forse erroneamente “spagnola”, che causò centinaia di migliaia di morti. Successivamente, si appurò che il termine “spagnola” non aveva alcun significato e non determinò comunque variazioni sociali sulla popolazione italiana. Ciò che invece fece il fascismo che lasciò non solo cambiamenti profondi ma soprattutto e purtroppo una tragica guerra mondiale. Di quegli avvenimenti noi italiani ricordiamo la tragedia del fascismo ma la stragrande maggioranza non si ricorda della “spagnola”. Personalmente ritengo che questa crisi pandemica non avrà la “autorità storica”, ma verrà ricordata come una epidemia “farcita” da esagerazioni e menzogne sulla casualità del suo arrivo. Non mi permetterei di definire ciò che stiamo vivendo una “evenienza storica” ma un insieme di errori politico-sociali le cui origini e cause vanno ancora analizzati. Mi permetto una forma di ottimismo da evidenziare con una battuta del grande Eduardo De Filippo: «Adda passà ‘a nuttata».

Lei che ha passato gran parte della sua vita in divisa, e su fronti caldissimi come quello libanese, che reazione ha nel sentire applicare, anche da personalità di Governo, terminologie belliche nell’approcciarsi alla crisi virale? «Siamo in guerra», «le nostre munizioni sono le mascherine»…
Cosa ne penso? Penso che sia una tipica e pericolosa esagerazione italiana. Per fortuna questo Paese è abbastanza attrezzato per fronteggiare e superare questa iattura momentanea. Lasciamo da parte le esagerazioni e terminologie davvero fuori luogo, e con coscienza umile ma consapevole affrontiamo, insieme, disciplinatamente, questa epidemia. Per comprendere e fronteggiare questa crisi è sicuramente necessario accettare, ripeto con disciplina, le misure volte a contrastare e sconfiggere il Covid-19 ma che nessuno si senta per questo autorizzato a definire questo impegno una “guerra”.

Questo virus non ha fermato le guerre, quelle vere…
È così. Dobbiamo constatare che questo virus non ha né fermato né sostanzialmente modificato quelle che sono reali guerre nel mondo.

Un discorso che investe un’area cruciale per l’Italia: il Mediterraneo. Pensiamo alla Libia..
Non solo la Libia, ma tutto il continente africano è una potenziale e pericolosissima mina vagante. Voler considerare la Libia di oggi, per non evadere la sua domanda, come se si trattasse di una nazione organizzata su principi di carattere politico e strategico tradizionali, è una bestemmia. L’attuale confusione esistente in quest’area nordafricana a noi particolarmente conosciuta non consente di esprimere sulla Libia di oggi qualsiasi considerazione logica e avveduta. A regnare oggi in Libia è il caos, un caos armato, è la confusione, l’illecito, la malvagità, gli interessi più abietti che possono essere presi in considerazione in una comunità umana. La tragedia della Libia coinvolge esseri umani che con la Libia non hanno nulla a che fare e che anzi sarebbero ben felici di non essere in quel territorio, in quell’inferno. Purtroppo per l’umanità, la Libia è la meta di decine di migliaia di persone dell’Africa disperate al punto di essere disposte a correre il rischio di essere uccise pur di avvicinarsi all’Europa. La Libia è oggi una “palestra” di arroganza nella quale agiscono attori esterni che conducono una guerra per procura. Pensare di poter affrontare questa situazione con qualche nave è una sciocchezza, una pericolosa sciocchezza. Sarebbe auspicabile che un organismo sovranazionale, come l’Onu ad esempio, imponesse con decisione la propria presenza non tanto per risolvere la drammatica situazione che segna la Libia ma almeno per ridurre il numero delle vittime.

In questo scenario tormentato che ruolo può svolgere l’Europa?
Un ruolo di straordinaria importanza, per certi versi unico nel panorama internazionale. Se c’è un soggetto il cui intervento può ridurre le grosse perturbative di carattere sociale che sono all’orizzonte dell’umanità, questo soggetto è l’Europa. Lo stesso non si può dire per l’America o la Russia.

Perché?
Per la sua profonda cultura e vocazione alla pacifica convivenza.

Generale Angioni, come ha vissuto l’impegno dei militari italiani chiamati a contribuire a far fronte a questa crisi pandemica?
Con soddisfazione e orgoglio. Il mestiere del soldato non è di uccidere ma di salvare vite umane.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.