Virus e tecnocrazia
L’Unione Europea è in crisi, o cambia o morirà col virus
L’Europa politica si avvicina a un appuntamento per lei e per i popoli che la compongono assai importante. In un certo senso, cruciale. Dopo ingiustificabili rinvii, il 23 aprile sarà chiamata, a meno di altre colpevoli linee di fuga, a una scelta, quella attorno agli Eurobond, che influenzerà l’intera politica economica con cui l’Europa affronterà il problema dell’uscita dalla crisi e dall’emergenza provocata dal virus. Il 23 aprile l’Eurozona sarà di fronte a un bivio. E ci arriva male. Male per i rinvii, male per i tanti materiali inquinanti fin qui depositati sulla scelta da compiere, male per il blocco eretto da un gruppo di Stati, tra i quali la Germania, contro una scelta indispensabile per lo stesso futuro dell’Europa, oltre che per una ragione ancora più importante: quella di non vedere i suoi Paesi precipitare in una devastante crisi sociale, colpiti dalla disoccupazione drammatica generata dalla recessione.
La recente riunione del Parlamento europeo, peraltro, ha rivelato ancora una volta tutta la sua inconsistenza politica. La proposta che con i suoi voti avanza a chi dovrà decidere, in sostanza ancora una volta il concerto dei governi europei, è ambigua e mal definita. I voti sui vari aspetti della questione sono stati confusi, contraddittori e trasversali ai diversi schieramenti. La necessità di una opzione di fondo è risultata così oscurata, mentre la sola cosa percepibile, per esempio nelle principali forze politiche del nostro Paese, è stata la priorità della scelta di stare all’interno dell’Europa reale, quella del Pd, o della scelta di mettersi politicamente, ma solo politicamente, al di fuori di questa, da parte della Lega.
Così si arriva all’appuntamento con una decisione cruciale per il nostro futuro a fari spenti. La partecipazione popolare a una scelta politica così importante, già compromessa dal regime speciale che hanno assunto gli assetti istituzionali con la sospensione della democrazia rappresentativa, viene azzerata. Sarà bene allora occuparsi, in attesa delle decisioni europee del 23 aprile, di ciò che in accumulazione di fattori di crisi ha preceduto lo stato di eccezione da virus che, con quest’ultimo, è venuto dilatandosi. È questo grumo di problemi irrisolti che si fanno drammatici che la politica dovrà affrontare comunque, anche se assai diversamente a seconda dalle scelte che si compiranno.
La crisi è una vera e propria crisi di sistema. La democrazia così come l’abbiamo conosciuta nel ciclo delle lotte del dopoguerra ne ha fatto le spese e il suo assetto si è venuto definendo lungo le coordinate delle post-democrazie. Le grandi parole che hanno aperto le porte della modernità – libertà, uguaglianza e fraternità – sono state soverchiate dal mercato e dalla competitività. L’affermazione del sistema in cui ora viviamo si è accompagnata, già nella fase nascente e poi in quella discendente, alla sistematica destrutturazione delle conquiste realizzate nel loro nome, anche se va riconosciuto che quella della fraternità non è mai stata in buona salute nello spazio pubblico.
L’Europa reale, dimentica dello spirito di Ventotene, si è costituita su queste basi e ha covato la crisi sociale, politica, culturale che l’ha investita a fondo e che il virus ha reso drammaticamente ancora più evidente. L’evidenza non consente più linee di fuga: anche tra gli ex apologeti si manifestano infatti vistosi e significativi ripensamenti, ma ancora in ordine sparso e senza una linea egemonica. Pesa la mutazione genetica subita dalle grandi famiglie politiche e in particolare di quelle appartenenti al socialismo europeo. La crisi delle grandi culture e dei grandi soggetti politici ne genera a sua volta un’altra: la mancanza in Europa di leader autorevoli. Resta solo la nuda autorità della Carta, pesa solo la parola dei capi di governo, solo perché in quel momento al governo. Il resto può essere un rumoroso conflitto, ma senza ascolto.
Fuori dal deserto emerge purtroppo solitaria la parola del pontefice. I governanti parlano e decidono senza partecipazione in una democrazia ridotta a vuoto simulacro. Due sono le varianti: da un lato quella del comandante in capo, facendo vivere artificialmente la metafora della guerra; dall’altro la costituzione di una nuova forma di governo elitario, composto a geometria variabile da esperti nominati dai governanti in carica, con i think tank e i comitati degli esperti al posto del dibattito politico delle commissioni parlamentari e del confronto tra le forze politiche e sociali, per costruire le proposte e le decisioni su di esse, ma soprattutto al posto della partecipazione popolare. Quest’ultima è la sola che fa vivere il sapere dell’esperienza, la misura concreta della traduzione delle decisioni del potere nella vita reale delle persone e nell’organizzazione della società civile. La proliferazione dei comitati di esperti associati al governo sequestra non solo le risposte ai problemi, ma le domande che solo la partecipazione degli interessati può far emergere.
Quale comitato di esperti può conoscere meglio della coalizione lavorativa interessata, meglio degli operai, le condizioni di lavoro che non espongono al rischio o che lo possono ridurre al punto da essere controllabile? Se si sceglie la strada opposta, quella oligarchica, di un rapporto tra governo e un’espressione della scienza in funzione di quella, è perché nella crisi si vuol fare valere la ragion di Stato. Cioè proseguire sulla strada perseguita fin dalla “normalità” che l’aveva preceduta, che viene poi fatta precipitare nell’oggi. Che si fa precipitare in una sala di comando unica che la Babele di linguaggi che la circonda soltanto rafforza, semmai solo in attesa di un nuovo governo della stessa natura, semmai ancor più potenziato. Si consuma così il ritorno a Cavour.
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