Fino a quando non si entra e non ci si trattiene del tempo dentro l’istituzione carceraria, è difficile comprendere effettivamente di cosa si parla quando si parla della condizione di vita in essa. Tanto più nella realtà italiana, vergogna che si perpetua nella più cinica indifferenza generale. Tanto più in Campania, e a Napoli, nel carcere cittadino di Poggioreale. Per questo in carcere bisogna entrarci, bisogna visitare i carcerati (a poca distanza da Poggioreale riposa la visione di misericordia dipinta per Napoli da Caravaggio: tra le opere di misericordia c’è anche quella), per questo bisogna pretenderlo dagli uomini che rappresentano le istituzioni, non solo giudiziarie, e che esercitano pubblici poteri.

A dicembre 2018, la giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati di Napoli organizzò appunto una “visita” dentro gli spazi di Poggioreale. Attraversammo i corridoi, ci affacciamo o entrammo dentro le celle. In alcuni reparti c’era la possibilità per i detenuti di passeggiare per un certo tempo al di fuori delle singole celle, che rimanevano aperte. Demmo un’occhiata al padiglione dove scontavano la pena le persone transgender. Siccome si era sotto Natale, per qualche minuto assistemmo alle prove per la recita che detenuti e operatori sociali stavano mettendo su. A ogni passo si respirava dolore, un peso indefinito, ma terribile, gravava addosso a noi, magistrati in visita.

Un’operatrice disse che quelle prove teatrali le stavano tenendo soprattutto i detenuti tossicodipendenti. Aggiunse che era una fatica quasi insostenibile, quella condizione duplice di carcerazione: la detenzione per esecuzione della pena e l’essere ostaggio della dipendenza da droghe o alcool. Non mi dilungo su una visita che andrebbe prescritta come medicina socio-politica ineludibile almeno una volta all’anno a beneficio di molte altre espressioni della classe dirigente cittadina, non solo della magistratura, ovviamente coinvolta in maniera diretta nell’istituzione penitenziaria.

Quel che tentai dopo qualche settimana, fu però un’esperienza di volontariato in carcere, e ne feci cenno a un caro amico, eccellente magistrato di sorveglianza, Marco Puglia (che, tra le altre cose, del teatro coi detenuti ha fatto un’esperienza umana rara e preziosa). Volli cioè fare ingresso in carcere non certo nella veste di magistrato, ma come scrittore, per tenere qualche laboratorio di scrittura creativa. Era la primavera del 2019. Incontrai una direttrice contenta e disponibile e così, in jeans e camicia, feci il mio ingresso nel padiglione dei detenuti omosessuali. Il primo e l’ultimo ingresso. E non certo a causa dei detenuti, che erano affascinati, ma anche straniti dal fatto che un magistrato facesse lì il volontario, per scrivere, o meglio per farli scrivere liberamente di sé. In quell’occasione ognuno scrisse di chi e cosa gli mancava stando in cella. Come sempre, quando la scrittura è autentica, leggemmo insieme cose piene di vita, colme di verità.

Una cosa per un detenuto in particolare fu pressante: raccontarmi la condizione bestiale in cui erano costretti a vivere. Mi fecero vedere le macchie verdi di umidità alle pareti, anche nello stanzino che ci diedero a disposizione per il laboratorio. Mi spiegarono il freddo che pativano. Mi chiesero perché non ottenevano risposta alle loro richieste. Per me fu troppo: essere gettato (in senso esistenzialista) in quella condizione all’improvviso, senza la presenza di un assistente sociale, di un intermediario dell’istituzione, e dover rivestire i panni incoerenti di uno che era parte dell’istituzione, in qualche modo, e che però andava lì a fare il volontario e l’artista, non seppi gestirlo. Non ci tornai più. Probabilmente il lunedì successivo mi attesero. Mi è rimasto un senso di colpa importante per quella sorta di abbandono. E spero che, prima o poi, troverò il modo di recuperare.

Di certo non ho dimenticato quei volti, quelle storie, quelle espressioni, e anche quella breve gioia di poter prendere la penna e scrivere, anche solo per esprimere un momento di nostalgia nell’invenzione. Non sono mai stato magistrato di sorveglianza. Non ho mai approfondito i grandi temi strutturali dell’istituzione carceraria. Non saprei elaborare metodi e soluzioni. Posso solo dire che almeno la gelida patina di indifferenza e ignoranza che scende sui nostri sguardi quando si tratta della condizione dei detenuti, almeno quella abbiamo il dovere e il potere di rimuoverla. Per vedere, ascoltare, comprendere. Quanto meno per non smettere di “visitare”.