Pare proprio il dialogo impossibile, quello tra Marta Cartabia e Piercamillo Davigo. Lei è quella che, da giudice della Corte Costituzionale, fece il “viaggio nelle carceri” auspicandone il minor possibile ricorso. Lui quello che da pubblico ministero contribuì a riempirle soprattutto di “non colpevoli” in attesa di giudizio. Dialogo impossibile, pure a distanza, pure lui ci prova e ci riprova. Non per discutere, ma per rimproverare. Chieda al Dap i numeri giusti sulla custodia in carcere, scrive sgarbatamente alla ministra, al termine del suo solito scritto sul quotidiano di famiglia. La famiglia delle toghe, ovvio.

La ministra Marta Cartabia è impegnata su molti progetti, la cui realizzazione è in itinere, non ultima la riforma del Csm. Che è fondamentale anche perché coinvolge la cultura dei magistrati. I quali – come lei stessa ha ricordato di recente, e insieme a lei un po’ tutti, spesso per dovere più che per convincimento – nella maggior parte dei casi sono “laboriosi, coscienziosi e dediti al loro compito”. Manca un “amen” e le toghe sono seppellite. Perché a questo tipo di giaculatoria segue sempre un “però”. E il “però” della ministra, per come lo ha pronunciato nei giorni scorsi, intervenendo a due diversi appuntamenti, è grande e impegnativo: “Ci vogliono le necessarie riforme, ma soprattutto la rigenerazione che attinge a un sostrato culturale”.

Vasto programma, vien da dire. Ma è un pilastro, se supponiamo che in Italia i Davigo siano tanti e che il problema culturale non sia solo un fatto generazionale in via di superamento con i pensionamenti. Vien da chiedersi: ma questi due illustri personaggi hanno fatto le stesse scuole, lo stesso percorso di laurea, il medesimo concorso? La stessa domanda che molti giuristi si posero agli inizi degli anni novanta, mentre, dopo la riforma del codice, iniziavano i processi penali con il sistema accusatorio. E si videro le differenze. C’erano quelli come Giovanni Falcone che, pur avendo costruito il maxiprocesso (che però era iniziato prima), era molto favorevole al nuovo rito e auspicava la separazione delle carriere tra giudici e avvocati dell’accusa. E poi c’erano tutti gli altri a fare resistenza. Il legislatore non fu da meno.

Per questo la ministra Cartabia ha messo un punto fermo: “Il potere di punire è tanto terribile quanto necessario. Ma è un potere che ha preso dimensioni esorbitanti”. Non ha detto “arrestare” o “punire con il carcere”. E nel suo definire “esorbitante” la misura assunta dalla sanzione, è proprio di privazione della libertà, di galera che sta parlando. Poi, la sua sintesi: “troppe leggi, troppe norme, troppi processi e forse troppe indagini lasciate cadere”. C’è troppo di tutto, dice. E lo precisa, lo ha ben definito nel suo programma di misure alternative, di messa alla prova, di svuotamento delle carceri senza che si rinunci all’applicazione della pena. Si preoccupa soprattutto di quelle porte girevoli che portano soprattutto ragazzi giovani e magari incensurati a cadere in qualche girone per periodi troppo brevi per la rieducazione ma sufficienti per la contaminazione. Per non parlare dell’eccesso di carcerazione preventiva. Il dottor Davigo pare non capire. Si mette in cattedra, forse perché la guardasigilli è una donna, forse perché ha vent’anni meno di lui. O forse perché, dai tempi in cui era considerato il più preparato del pool Mani Pulite, gli viene spontaneo considerarsi “oltre”, per non dire “sopra”.

Del resto, non era lui uno dei quattro che sfidarono in tv il governo Berlusconi dopo l’emanazione del “decreto Biondi”? Vinse allora e molte altre volte. Forse per questo suo passato ai vertici del mondo, oggi il dottor Davigo si permette di dire che il rimedio contro un eccesso di proliferazione legislativa è semplice: basta farne di meno. Certo, per i reazionari ogni riforma comporta un pericolo per la propria tranquillità. O per il proprio potere? E altrettanto sbrigativo è rispetto all’eccessivo numero di processi: si è depenalizzato già tanto, di più non si può fare. E mai lo sfiora la constatazione del fatto che c’è un imbroglio che si chiama obbligatorietà dell’azione penale e che non ci sono incentivi sufficienti all’applicazione dei riti alternativi, che invece sono la stragrande maggioranza delle soluzioni nei Paesi anglosassoni. Così finisce solo per concentrarsi sul numero dei carcerati, snocciolando cifre su cifre per dimostrare che in Italia tutto sommato ci sono meno detenuti che altrove in Europa.

Proprio non pare capire che la ministra Cartabia, anche nel raccontare che ha incontrato associazioni di volontariato disposte ad accogliere fino a novemila persone per dare un’alternativa alla galera, non sta dicendo che i nostri istituti di pena sono sovraffollati. Sta indicando alternative al carcere, sta dicendo che la pena non deve necessariamente consistere nelle manette. Cosa inconcepibile per le toghe come Davigo. Il problema è: quante sono?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.