L'intervento
La “fiducia nella magistratura” che mortifica il diritto
Premessa (un po’ stracca ma ancora necessaria): quando diciamo “magistratura” non ci riferiamo all’insieme dei magistrati, ma alla struttura corporativa e all’irresponsabilità castale che ne protegge il potere. E fatta questa precisazione diciamo che non se ne può più di ascoltare il politico di turno che, lambito da un’indagine, dichiara di avere “fiducia nella magistratura”. Non nella magistratura, infatti, ma nel diritto bisognerebbe avere fiducia: perché avere fiducia nel diritto è l’unico strumento per tentare di difendersi dalla prepotenza giudiziaria; mentre proprio l’immotivata fiducia nella magistratura, con l’arroganza di cui essa si carica grazie a quel tributo fideistico, è causa della mortificazione del diritto cui quotidianamente si assiste.
Alla luce di questa verità, evidente agli occhi di chiunque li tenga aperti sullo stato della nostra amministrazione della giustizia, non si capisce per quale motivo il politico ghermito dal tentacolo giudiziario senta la necessità di reiterare quella manifestazione fiduciaria: come se questo certificasse sensibilità istituzionale ed equilibrio civile anziché risolversi – perché di quest’altro si tratta – in una specie di goffo inchino adulatorio. Giusto l’altro giorno l’ha fatto il senatore Matteo Renzi (ma è solo uno dei tanti), appunto ripetendo che lui “ha fiducia nella magistratura” che pure ha sottoposto lui e il suo partito a qualche attenzione forse un po’ orientata. Bisognerebbe smetterla con questa cantilena idolatrica non solo perché lo svelato immondezzaio della magistratura corporata la rende inascoltabile: è proprio in linea di principio che non va bene, perché a nessuno verrebbe in mente di professare fiducia nell’editoria, nel notariato, nell’agricoltura o nella ristorazione slow food, tutte cose buone se chi le fa è bravo, non perché c’è qualcuno incaricato di farle e pace se le fa male.
E il guaio è che la dichiarazione di fiducia nella magistratura cui si lasciano andare questi politici non rinvia all’ovvia necessità di riconoscere che c’è un sistema costituzionale posto a disciplinare i poteri di chi accusa e giudica (ci mancherebbe che fosse diversamente): rinvia al presunto obbligo di omaggiare “questa” magistratura e i suoi capibastone, “questa” magistratura e la pompa dei suoi modi, “questa” magistratura e la sua impassibilità reazionaria, “questa” magistratura e il suo giustapporsi eversivo. Una conseguenza inevitabile se si scambia il rispetto della legge con la devozione sacrale per chi ha il potere di applicarla.
Dal politico – ma da chiunque – sottoposto alle cure di giustizia sarebbe bene che venisse un atteggiamento diverso, e cioè una manifestazione di fiducia nei confronti del diritto e dello Stato di diritto: con la speranza, con la richiesta, con la pretesa che essi si affermino esattamente contro un certo modo di intendere la giustizia e di amministrarla. Che poi anche la fiducia in quest’altra faccenda – il diritto – sia messa a durissima prova è un altro discorso: ma è la sola cosa che rimane. E si dimostra fedeltà alla Repubblica, e al poco di democrazia che ancora la innerva, quando si rimane in piedi nell’appello al diritto: non quando ci si abbassa per baciare la pantofola del potere togato.
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