L’ultimo turno delle primarie finisce così: con Biden che tiene un discorso da Presidente degli Stati Uniti in pectore mentre Sanders fugge nel suo Vermont senza neanche una dichiarazione. Nello Stato più importante delle primarie svoltesi martedì, il Michigan, sede della grande industria automobilistica, Biden conquista il 53% dei voti lasciando Sanders al 37%. Viceversa, nel 2016, proprio qui contro Hillary Clinton, Sanders aveva vinto. La svolta di questo Joementum? Biden conquista quei sobborghi della classe operaia bianca locale che Sanders ha cercato invano di affascinare con il suo radicalismo classista. Nelle contee di Oakland e di Macomb, due sobborghi di Detroit, l’ex vice di Obama raccoglie un gruzzolo di voti ben più alto rispetto a quello raccolto nel 2016 dalla Clinton. Secondo molti osservatori vincere qui rappresenta per lui – che conquista anche Idaho, Mississippi e Missouri – un ottimo viatico per battere Trump alle elezioni presidenziali.

Sanders aveva chiamato alle armi i suoi sostenitori più popolari: Alexandria Ocasio-Cortez, Cornel West e Michael Moore. Ma è stato inutile. Il fallimento di Bernie – oltre che dalla sua totale incapacità di attirare il consenso degli afroamericani, quasi tutti per Biden – dipende principalmente dalla frana del suo piedistallo: il voto dei giovani radicali. Sanders contava sull’aumento della loro affluenza. Ma il voto dei giovani non soltanto non è aumentato, ma è perfino diminuito. Lo ha scritto Cas Mudde: «Per dirla con sarcasmo: i giovani twittano, gli anziani votano».

E così, nel discorso pronunciato martedì sera al National Constitution Center di Philadelphia, Joe Biden comincia a interpretare il ruolo del presidente in pectore, facendo riferimento anche all’epidemia di Coronavirus che comincia a diffondersi negli Usa. «In questo momento in cui c’è tanta paura nel paese e tanta paura in tutto il mondo – ha detto il front runner democratico – abbiamo bisogno della leadership americana». E ha aggiunto: «Abbiamo bisogno di una leadership presidenziale che sia onesta, affidabile, veritiera e costante: una leadership rassicurante».

Tutto ciò che manca oggi al presidente in carica. Nei giorni scorsi, infatti, di fronte alla minaccia del virus, Donald Trump, con un tipico riflesso populista, ha cercato di minimizzare la pandemia, chiamandola “foreign virus” e accusando i democratici di usarla per danneggiarlo politicamente. Ma nelle ultime 48 ore è successo di tutto: il crollo dei mercati a causa della crisi sanitaria globale, l’aumento dei contagiati (che in Usa superano ormai le mille unità), l’Organizzazione Mondiale della Sanità che dichiara ufficialmente che quella da Covid-19 è una pandemia. Dopo aver contraddetto per settimane gli avvertimenti dei suoi consiglieri e dei funzionari federali e aver evitato di raccogliere l’allarme limitandosi a scrollare le spalle, Trump comincia a preoccuparsi, soprattutto per le conseguenze economiche dell’epidemia.

Nel discorso alla nazione di mercoledì ha annunciato il divieto dei viaggi dall’Europa verso gli Stati Uniti per 30 giorni: una misura drastica per contenere la diffusione del virus che però, chissà perché, non riguarda il Regno Unito. Trump ha inoltre annunciato una serie di misure di emergenza per aiutare le aziende americane colpite dalla crisi, i lavoratori a basso reddito e per sostenere l’economia americana dal rischio di recessione. In più ha assicurato lo slittamento del pagamento delle imposte per le persone fisiche e le società danneggiate dalla crisi del coronavirus. A molti osservatori l’iniziativa di Trump è apparsa una presa di coscienza tardiva.

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