Nelle primarie che si sono svolte questa notte in 6 Stati – Idaho (che assegna 20 delegati), Michigan (125), Mississippi (36), Missouri (68), North Dakota (14), Washington (89) – Biden parte favorito, inutile girarci intorno. Il Super Tuesday della settimana scorsa, decisivo per lui, ha rovesciato il senso di marcia della corsa per la nomination democratica. Biden ha raccolto un largo consenso trasversale – sì, chiamatelo “campo largo”, se preferite italianizzare – mettendo d’accordo democratici di origine diversa, sia sociale che etnica. Questo è il punto, non certamente il peso dell’establishment di Washington. Chi ragiona così non conosce l’America: in un territorio così vasto non c’è disciplina di partito che tenga.

Certo, il sostegno esplicito dei colleghi di partito (da Amy Klobuchar a Pete Buttigieg, da Jim Clyburn a Beto O’Rourke) ha pesato. Ma il vero crack delle primarie del 3 marzo è stato il voto degli afroamericani che rappresentano in America un blocco elettorale compatto. Il 90% di loro vota per il partito democratico, in primo luogo perché furono i dem negli anni 60 a favorire la piena tutela dei loro diritti, ed è rassicurata dal curriculum di Joe Biden che può vantare la stretta collaborazione con Barack Obama durata otto anni, dal 2009 al 2017. In generale, per Sanders, le cose non sembrano mettersi bene. Gli Stati migliori per lui (soprattuto quelli del Sud, compresa la California) hanno già votato. I suoi punti di forza – i giovani progressisti e gli ispanici – non sono altrettanto significativi negli Stati in cui si vota oggi. Eppure, nelle primarie del 2016 contro la Clinton, Sanders aveva vinto in quattro Stati su sei di questa tornata, esclusi Mississippi e Missouri.

La partita più importante si gioca nel Michigan, lo Stato che ospita Detroit, metropoli sede dell’industria automobilistica. Come spiega David Catanese, corrispondente politico per l’editore McClatchy, «qui bisogna conquistare il consenso dei bianchi che appartengono a una vasta classe operaia e di un nucleo urbano di afroamericani. Vincere qui significa ipotecare il Midwest industriale che, con Illinois, Ohio e Wisconsin che seguiranno nelle prossime settimane, mette in palio un totale di 500 delegati. Insomma, vincere nel Michigan – dove ha vinto nel 2016 – è per Sanders un imperativo». Tuttavia, secondo Brandon Dillon, già presidente dei democratici del Michigan «le sconfitte di Sanders in Minnesota, Maine e Massachusetts suggeriscono che questa volta sarà molto più dura per lui conquistare il Michigan. Non ho mai visto intorno a Hillary Clinton la stessa coalizione di popolo che sostiene Joe Biden.

Forse perché la gente cerca un candidato certo adesso, senza aspettare la Convention di luglio». Biden ha ottenuto l’endorsement di Gretchen Whitmer, la governatrice democratica del Michigan, e di altri rappresentanti al Congresso, tra i quali Elissa Slotkin e Haley Stevens, due matricole democratiche la cui sopravvivenza dipende dalla conquista del voto moderato degli elettori repubblicani. Ecco perché Sanders cercherà di usare l’arma letale del protezionismo: attaccare Biden sugli accordi di libero scambio come il Nafta (intesa commerciale tra Stati Uniti, Messico e Canada) che, secondo lui, sarebbero alla base della crisi dell’industria e dell’aumento della disoccupazione nel Michigan. «Nel 2016 il populismo economico è stato un messaggio potente per Bernie così come lo è stato per Trump», assicura Amy Chapman, consulente democratica che ha diretto la campagna di Barack Obama nel 2008 in Michigan. «E il Nafta è stato un elemento di contrasto sia nelle primarie che nelle presidenziali».

Ma Joe Biden non è Hillary Clinton. Può contare su un indiscutibile punto di forza: il salvataggio dell’industria automobilistica all’inizio dell’amministrazione Obama che ha permesso la ripresa dell’economia locale in difficoltà durante la Grande Recessione e che continua a essere ricordato oggi con riconoscenza. Ryan Irvin, uno degli strateghi della campagna democratica nel Michigan, assicura: «Le persone che hanno ancora il loro lavoro e che di recente hanno potuto godere di contratti migliori non hanno dimenticato: a battersi per la difesa dell’industria automobilistica furono proprio Barack Obama e Joe Biden».

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