«Ho delle notizie per l’establishment repubblicano. Ho delle notizie per l’establishment democratico. Non possono fermarci», così ha twittato Bernie Sanders la sera di venerdì scorso 22 febbraio. Proprio venerdì il Washington Post aveva appena rivelato i tentativi dei servizi russi di sostenere la sua campagna, sebbene non fosse chiaro con quali modalità si stesse manifestando tale aiuto. Dopo la vittoria a valanga nei caucus del Nevada di sabato notte, dove il senatore del Vermont è arrivato primo con più del doppio dei voti dei suoi avversari, le frasi di quel tweet rimbombano più forti. Aderente allo spirito del tempo, Sanders gioca la partita del candidato populista in lotta contro le élite dominanti: quella repubblicana che governa la Casa Bianca e quella democratica che nel 2016 appoggiò la Clinton.

Nella corsa verso la nomination il Nevada gli consegna il ruolo di front-runner per una serie di fattori concomitanti. L’aumento dell’affluenza al voto: superiore a quella dell’Iowa, ma anche a quella del Nevada di quattro anni fa. L’ampio sostegno ricevuto dai latinos: ha votato Sanders il 53% della minoranza latina, tre volte di più di Joe Biden (solo il 17%), classificatosi alle sue spalle. L’apertura di una breccia perfino tra gli elettori moderati. Uno straordinario 66% di elettori con meno di 30 anni che costituiscono poco più della metà dell’elettorato. Il grande peso assunto dalle politiche sanitarie nelle intenzioni di voto che dà un vantaggio alla proposta Sanders di passare a un sistema di sanità pubblica completamente coperto dallo Stato federale sulla base di una forte tassazione.

Agli altri candidati restano le briciole. «Il Partito Democratico, non meno del Partito Repubblicano nel 2016 con Trump, sembra una nave abbandonata in attesa di essere catturata da una banda di pirati», spiega Ross Douthat del New York Times. «L’establishment di centrosinistra – continua – sembra vecchio e sfinito, troppo decadente per essere preservato. E i dem che non vogliono la nomina di Sanders scoprono, come i repubblicani del ‘NeverTrump’ del 2016, che è terribilmente difficile fermare un candidato senza concordare l’alternativa». In altre parole, «dare a Sanders cinque o sei avversari in ogni gara gli offre un vantaggio insormontabile». Con il rischio che a Milwaukee, a metà luglio, si svolga una brokered convention: ovvero un congresso nel quale i maggiorenti del partito sono costretti a selezionare un candidato di mediazione. Che, pertanto, sarà debolissimo.

Insomma, qualcuno dei candidati dovrebbe ritirarsi adesso per favorire il concorrente con più chance. Ma chi incarna meglio il profilo del candidato vincente? Le senatrici Elizabeth Warren e Amy Klobuchar sembrano ormai alla fine della corsa: la prima superata a sinistra da Sanders, la seconda emarginata dagli altri centristi. Restano in piedi le tre “B” della competizione democratica: Biden, Buttigieg e Bloomberg. Per il primo, ex vicepresidente con Obama, il voto nella Carolina del Sud è l’ultima spiaggia. In quello Stato, contando sull’appoggio dell’elettorato afroamericano, Biden spera di rilanciarsi dopo il tracollo dei primi tre round iniziali.

Nel discorso successivo alla batosta del Nevada, Buttigieg ha circoscritto il campo: «Il senatore Sanders crede in una rivoluzione ideologica inflessibile che esclude la maggior parte dei democratici, per non parlare della maggior parte degli americani». La campagna di Sanders si basa su tre pilastri – “combattimento, divisione e polarizzazione” – principalmente rivolti contro il suo stesso partito. Per Buttigieg i democratici devono scegliere, dunque, se «dare la priorità alla purezza ideologica o a una vittoria inclusiva». Serve pertanto «aprire la tenda a una nuova, vasta e generosa coalizione americana». E, per evitare di puntare su candidati troppo “polarizzanti”, suggerisce di premiare, piuttosto che l’indipendente Sanders, un candidato genuinamente “democratico”. Ma gli appelli non bastano. Buttigieg rischia grosso nelle prossime tappe: si voterà negli Stati dove le minoranze etniche sono decisive, ma qui Pete non riscuote ancora grandi consensi.

Secondo i dati del Pew Research Center, infatti, i prossimi Stati presentano una concentrazione molto alta di elettori latinoamericani: questo vale per la California (è latino il 30,5% degli elettori), il Texas (30,4%), l’Arizona (23,6%), la Florida (20,5%) e il Colorado (15,9%). «I sondaggi promettono un’elevata affluenza dei latini alle urne nelle prossime primarie, specie in California e in Texas», rivela Matt Barreto, co-fondatore di Latino Decisions, una società di sondaggi di ispirazione democratica dedicata agli elettori latini. I sette Stati con una forte concentrazione di Latinos che voteranno fino al 17 marzo assegnano 1.207 delegati pari al 46% dei 2.603 delegati democratici. Fino a oggi Michael Bloomberg ha saltato a piè pari i primi appuntamenti per concentrare tutto il suo budget sugli Stati del Super Tuesday (e travolgere California, Texas, Arizona e Florida con una valanga di spot elettorali in lingua spagnola). Una strategia non convenzionale, certo. Ma proprio per questo potrebbe rivelarsi efficace.

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