Serve una visione per il nostro futuro: il futuro di tutti noi e del pianeta; ne abbiamo uno solo (di pianeta, ma anche di futuro!) e stiamo dissipando il cammino intrapreso nei 78 anni che ci separano dal secondo conflitto mondiale. Due generazioni di pace. E ora una terribile regressione. La guerra deve assolutamente terminare. Subito. Ci troviamo già da ora di fronte a conseguenze drammatiche. Non solo sul piano dei rapporti internazionali tra due paesi confinanti, strettamente collegati. Ma anche (soprattutto) sul piano dei rapporti personali, con famiglie e comunità collegate l’una all’altra, profondamente divise da una frontiera che è comunque una costruzione umana tra due popolazioni unite da solidi legami religiosi, culturali, linguistici.

Il premier Draghi lo ha detto al presidente Biden: impegniamoci perché il conflitto termini. È una prospettiva netta e da accogliere immediatamente. Si potrebbe iscrivere in questo orizzonte anche il segnale arrivato dal Cremlino il 9 maggio: non ci sarà un allargamento del conflitto. Sono segnali che vanno colti e allargati. È certo una via stretta, ma va percorsa. Già così abbiamo di fronte un periodo di grande incertezza, con i contraccolpi del conflitto destinati a durare, nelle relazioni tra i popoli, tra gli Stati, in Europa e nel mondo. I dati sono impietosi. In una recente audizione sul Def, il Documento di economia e finanza, l’Ufficio parlamentare di bilancio ha lanciato l’allarme: se il conflitto prosegue il Pil subirà una contrazione addizionale di circa un punto e mezzo percentuale nel complesso del biennio. Contemporaneamente si assisterebbe a più marcati incrementi dei prezzi al consumo, per circa 2,5 punti percentuali cumulati nel 2022-23 nel caso dell’Italia.

Come scriveva giorni fa l’Huffington Post, le conseguenze del conflitto bellico si fanno sentire sul lato asiatico del globo. In Cina l’indice manifatturiero delle piccole imprese private, più sensibile agli smottamenti, si colloca sotto quota 50, lo spartiacque tra crescita e recessione. Morgan Stanley taglia le stime della crescita cinese per l’anno in corso di un punto rispetto all’obiettivo ufficiale (dal 5,5% al 4,6%). Il rallentamento dell’economia mondiale e gli effetti della guerra ucraina riducono le esportazioni cinesi, mentre i flussi di capitale invertono la rotta alla ricerca di porti più sicuri. E a proposito di porti, ci sarebbero (stime prudenti) 4,5 milioni di cereali bloccati nei porti ucraini, aggravando il rischio fame nei paesi africani e non solo.

L’ultimo rapporto della Fao, due settimane fa, rileva la “grave preoccupazione per l’impatto del conflitto sull’aumento dell’insicurezza alimentare a livello globale, poiché l’Ucraina, la Federazione Russa e la regione sono una delle più grandi al mondo aree importanti per le esportazioni di grano, semi oleosi e altre esportazioni agricole, quando milioni di persone stanno già affrontando la fame o il rischio immediato di fame o stanno vivendo un’alimentazione grave insicurezza in diverse regioni del mondo”. Non è fantascienza ipotizzare un aumento del numero dei profughi; saranno profughi della fame, questa volta, a bussare dai paesi del Sud del mondo alle porte dell’Occidente. Un Occidente che già deve fare fronte al problema delle fonti energetiche, con il possibile ritorno a inquinanti come il carbone oppure la corsa a dotarsi di fonti alternative, sottolineando i ritardi di una politica poco lungimirante sul piano energetico. Costretti ora a rincorrere le rinnovabili, come faremo a mettere in atto una transizione ecologica veloce, reale, efficiente, ordinata?

La guerra sembra lontana, sebbene in Europa, e tuttavia sta toccando già e ancora di più toccherà il nostro stile di vita, un benessere che sembrava inarrestabile. La guerra ha conseguenze umane, finanziarie, economiche, politiche, sociali, geopolitiche, religiose, devastanti. I popoli sono interconnessi – già negli anni Sessanta si parlava di “villaggio globale” – e la miopia politica ci ha portati tutti sull’orlo di un disastroso abisso. Ripenso al conflitto in Bosnia che fu fermato con una decisione forse non esemplare, ma certamente opportuna per terminare lo sterminio. C’è bisogno ancora oggi in quella terra di una visione più sapiente, ma la pace è stata una realtà che va comunque custodita. Ed è il compito della politica. In quella occasione la politica ebbe la prevalenza sulle armi. Forse è un esempio anche per l’oggi.

C’è comunque l’urgenza di una visione nel cui orizzonte si può iscrivere quell’indispensabile compromesso per giungere prima alla fine del conflitto e poi al cammino – magari lungo, ma pacifico – per una pace giusta e duratura. Dobbiamo essere consapevoli che oggi nessun conflitto avrà vincitori. È come il famoso film War Games quando alla fine il computer stesso (una macchina!) si rende conto che lo scenario di guerra globale non porta alla vittoria ma alla sconfitta di tutti. Perché con il conflitto distruggiamo il nostro habitat e stiamo seminando non grano, ma letali conseguenze di fame e divisioni per decine e centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, oltre a compromettere la convivenza civile globale.

Serve una visione forte della politica, una decisione ferma e audace: le armi non portano alla tregua. Il dialogo e l’incontro, sì. Papa Francesco lo ha ricordato lunedì 9 agli studenti dell’Università di Macerata, la città di Matteo Ricci, il grande conoscitore ed evangelizzatore della Cina, ricordato ancora per la capacità di mettere in contatto, in dialogo, culture e visioni del mondo tanto diverse. Ed accadeva nel Sedicesimo secolo. Era possibile allora. È possibile oggi! “Occorre maturare una cultura dell’incontro”, dice papa Francesco. E di Matteo Ricci ha detto: «È stato un uomo di incontri, un uomo della cultura dell’incontro, un uomo che è andato oltre all’essere straniero; è diventato cittadino del mondo perché “cittadino delle persone”. Questa è cultura dell’incontro».

Passando da ieri ad oggi: «Quanto bisogno c’è oggi, a tutti i livelli, di percorrere con decisione questa strada, la strada del dialogo! Quanto i poteri del mondo sono abituati alla strada dell’esclusione, alla cultura dello scarto! No c’è bisogno del dialogo, la strada del dialogo. ‘Ma perdere tempo con il dialogo?’. Sì, perdere tempo perché questo poi fruttifica in modo più grande e più bello». I responsabili della politica hanno il potere di fermare la guerra. Un unico motto dovrebbe guidarci soprattutto ora: le armi ci portano verso l’abisso. Serve uno scatto di intelligenza, un impegno a uscire dal disastroso esito di una miopia politica che ha ostentatamente ignorato i conflitti, mettendo la polvere sotto il tappeto nell’illusione di farla scomparire. Non è così. Serve una politica nuova per un’umanità che abbia un destino migliore ed un futuro, basato su una sola convinzione profonda: siamo tutti fratelli e sorelle tra noi, ed abitiamo nella stessa casa. Non dobbiamo dimenticarlo.