La comunicazione politica sulla campagna elettorale napoletana per le prossime amministrative si gioca anche a colpi di immagini veicolate dai social network. Gli ultimi giorni hanno mostrato due modi opposti di viverla in questa ormai ineliminabile dimensione. Da un lato, la fotografia di alcuni personaggi sorridenti in una pizzeria: Luigi Di Maio di fronte a Giuseppe Conte, Valeria Ciarambino (l’unica senza margherita davanti: la signora, piacevolmente mediterranea, avrà saggiamente optato per il non infrangere la dieta) a Gaetano Manfredi. Sorridono, ma la più ilare è lei, con un fondato motivo, ora che ha perfino fatto pace col presidente della Regione Vincenzo De Luca.

Il ministro degli Esteri, che non rinuncia ormai alla cravatta nemmeno di fronte al rischio di ungersela con l’olio della pizza, e l’avvocato, senza più governo e investito del ruolo di generale di un esercito che non sa ancora quanto sarà numeroso e fedele, sembrano marcarsi reciprocamente: facile prevedere che – archiviata la tenzone con Alessandro Di Battista per desistenza di uno dei combattenti – la prossima sfida sarà alla lunga tra loro, ma per ora ognuno dei due serve all’altro. L’unico che esibisce un sorriso, come al solito, un poco mesto e assente è l’ex rettore della Federico II che starà pensando chi gliel’abbia fatto fare di accettare, sia pure a patti e condizioni sul ripianamento della voragine debitoria cittadina, di intestarsi una battaglia difficile per un tecnico competente e misurato che però non muove passioni popolari (hai voglia a farti fotografare dietro una maglia di Maradona o a diventare soggetto di una statuetta di San Gregorio Armeno). Salvate il soldato Manfredi, comandante in capo di un esercito scombinato, forse in cuor suo renitente alla battaglia campale, che non si addice a chi ha esercitato finora un  potere vero, ma in sedi elitarie.

L’altra fotografia è quella di Antonio Bassolino che comizia a piazza Carità, circondato da una discreta folla di supporter. Sono subito partiti i conti di quelli che fanno le pulci per mestiere: erano pochi, non c’erano giovani… Considerazioni miopi, in verità. Si trattava di corpi riuniti finalmente assieme, quando ancora non siamo fuori dalla pandemia, che dicevano il piacere di ritrovarsi di un popolo militante: sangue, sudore, contatti di gomiti, mentre ai commensali del tavolo a quattro di rosso è rimasto solo il sugo di pomodoro.

Il richiamo al colore del sangue non nobile suona bene per lo sperimentato politico di professione che rivendica intera la sua storia, dall’essere stato comunista – ma senza Stalin nella terra di Gramsci, Togliatti, Berlinguer e di tanti compagni napoletani illustri – alla responsabilità di avere contribuito a fondare il Partito democratico, prima del parricidio a opera di un ceto poco valente (se ci leggete un’allusione, sappiate che chi scrive non ce l’ha messa, ma non si offenderebbe: i suoi lettori sono più maliziosi di lui), che peraltro sta là proprio perché lui non ha contribuito a formare eredi migliori e non ingrati, colpa non lieve. Di russo conosce le montagne che ama, discese e risalite: ottimo sindaco, discusso presidente regionale, molti processi, tutte assoluzioni con formula piena. Infine un paradosso: tanti candidati con i partiti alle spalle si vogliono “civici”, ma l’unico che lo è davvero fa rivivere gli antichi riti dei partiti.