«Che fine fa la legislatura?» «Che fine fa il governo?» si chiedono tutti. «Che fine facciamo noi» si chiedono i 5 Stelle. Il cortile di Montecitorio e il salone Garibaldi, i due luoghi dove in certe giornate – e ieri era una di quelle – si può tentare di capire come evolvono le situazioni, sembrano formicai dove è appena passato sopra uno scarpone. La scissione del gruppo parlamentare numericamente più importante (162 deputati, 75 senatori) è data per “inevitabile” ma non è vero che il discrimine sarà il secondo mandato, ovverosia chi è in Parlamento dal 2013 starà con Conte in cerca della ricandidatura; gli altri con Grillo, «non fosse altro per riconoscenza». Una cosa è certa: al momento i big non si schierano, né con l’uno né con l’altro.

Ora però al di là dello scarpone e del formicaio impazzito, di fronte al caos è necessario restare lucidi. Perché il dato politico del duello Conte-Grillo è che entrambi i loro gruppi “resteranno saldamente in maggioranza”. I 237 parlamentari 5 stelle (erano 313 nel 2018) vogliono concludere la legislatura nel 2023 e garantirsi almeno la pensione. Così, nonostante i 5 Stelle, tutto procede come prima: il ddl Zan va avanti al Senato; il premier Draghi prosegue con la tabella di marcia prevista e porta a casa il decreto Lavoro che oltre a cancellare il cashback (orgoglio di Conte e dei 5 Stelle) sigla la pace con i sindacati sul nodo sblocco licenziamenti e pone le basi per evitare la temuta e minacciata guerra sociale.

Certo, si dirà, il giorno dopo (il vaffa di Grillo a Conte) è troppo presto per misurare effetti collaterali sulla tenuta della maggioranza. Ma Draghi, e con lui la maggioranza che lo sostiene e più di tutti i “suoi” ministri tecnici a cui è affidato il Pnrr, hanno sempre saputo che a partire dal semestre bianco (3 agosto), quando non si possono più sciogliere le Camere, la vita del governo sarà più difficile. E hanno sempre saputo che il tempo per incardinare i provvedimenti più importanti scade alla fine di luglio. Poi diventa tutto più difficile. Sono allenati. E s’è visto ieri. Il disegno di legge Zan è un buon termometro per misurare la temperatura nei gruppi parlamentari. Diciamo subito che lo spartito deciso una settimana fa non cambia. Ieri alle 13 si è riunito, come previsto, il Tavolo tecnico con i capigruppo convocato dal presidente Ostellari (Lega).

Le posizioni non sono cambiate: Pd, Leu e M5s tengono il punto sul testo così com’è; Italia viva propone alcune correzioni all’articolo 4 perché «diversamente il testo sarà bocciato in aula nei voti segreti e a quel punto sarà affossato per sempre, cosa che nessuno di noi vuole»; Lega, Forza Italia e Fratelli d’Italia vogliono riscrivere il testo. Che si voglia fare sul serio lo dimostra il fatto che i partecipanti hanno stabilito di procedere adottando come testo base quello già approvato alla Camera e attualmente in commissione, fissando venerdì come termine per la presentazione di eventuali modifiche. Ostellari dovrà trovare una sintesi entro martedì prossimo. A quel punto ci sarà la votazione per portare il testo in aula il 13.

Insomma, la tempesta grillina non lambisce il blocco di forze politiche sul ddl Zan. Così come non sembra impensierire Draghi. Mentre Grillo martedì gridava il suo vaffa a Conte, il premier chiudeva l’accordo con i sindacati sul tema dei licenziamenti. Un accordo né facile né scontato. Il Consiglio dei ministri di ieri pomeriggio è stato molto operoso. In un’ora e mezza è stato licenziato il decreto lavoro che contiene misure urgenti in materia fiscale, di tutela del lavoro, dei consumatori e di sostegno alle imprese. Con il via libera dei sindacati, lo sblocco dei licenziamenti per l’industria manifatturiera ed edilizia vede l’eccezione per il tessile e i settori collegati. Per gli altri scattano incentivi a non licenziare. E poi il fondo Alitalia (100 milioni) per rimborsare i biglietti, il differimento dell’invio delle cartelle esattoriali; l’istituzione di un fondo per contenere l’aumento delle tariffe dell’energia elettrica. Tutte cose molto poco di “destra” visto gli echi che parlano di un governo Draghi “sempre più spostato a destra”.

Durante il Consiglio dei ministri Draghi ha voluto spiegare, soprattutto ai ministri 5 Stelle, perché è stato sospeso il cashback, punto d’onore del Conte 2. E non c’entrano i temi scomodati in questi mesi da Meloni e Salvini, “misura inutile”, “non combatte l’evasione”, “strozza il commercio” eccetera, eccetera. Il premier ha spiegato, dati alla mano, che il cashback è una misura per ricchi e non per i poveri e neppure ha incentivato un maggiore uso della moneta elettronica. «Quasi il 73% delle famiglie – ha spiegato – già spende tramite le carte più del plafond previsto dal provvedimento. Pertanto, la maggior parte potrebbe ricevere il massimo vantaggio anche senza intensificare l’uso delle carte. È invece improbabile che chi è privo di carte o le usa per un ammontare inferiore al plafond possa effettivamente raggiungerlo, perché la maggior parte di loro non può spendere quelle cifre».

Le famiglie più povere, per raggiungere il premio del cashback, dovrebbero aumentare la loro spesa con carte di credito «quasi del 40%, mentre quelle più abbienti solo dell’uno per cento». Significa che i circa due miliardi e mezzo, su un totale di 5 destinati al cashback, finora spesi sono andati a famiglie ricche e non povere. Un disastro. «L’onerosità della misura – ha aggiunto il premier va valutata in relazione al costo e quadro economico e sociale che nel 2020 ha visto entrare nella fascia della povertà assoluta oltre un milione di persone». I due miliardi risparmiati andranno al tavolo delle crisi aziendali e per combattere la povertà. A quel punto nessuno intorno al tavolo del Cdm ha fiatato.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.