Gli interventi di Michele Ainis (La Repubblica del 12 marzo) e Alberto Cisterna (Il Riformista del 16 marzo) sulle correnti interne alla Magistratura stimolano ulteriori approfondimenti. Il primo le aveva definite, insieme a quelle del Partito Democratico, “lobby, cricche, camarille” che, pur appellandosi alla democrazia e al pluralismo, in realtà sono “oligarchie di ferro”, costituite dai “signori delle tessere”, che utilizzano il potere derivante dai rispettivi pacchetti di voti per ottenere un seggio alle elezioni o, se magistrato, una nomina in un ufficio giudiziario; il secondo aveva rilevato che “non si possono criminalizzare correnti giudiziarie e correnti partitiche sulla base di deviazioni, pur massicce e significative, dalle ragioni ideali che ne giustificano l’esistenza”.

Quest’ultima considerazione è in sé corretta, perché la violazione dei principi statutari delle correnti, tanto partitiche quanto giudiziarie, costituisce un “fatto privato”, irrilevante per l’ordinamento statuale, liberamente valutabile e sanzionabile solo all’interno delle rispettive associazioni; ma non si può non rilevare nello stesso tempo che la spartizione delle cariche giudiziarie tra le correnti, che si sono sovrapposte e di fatto sostituite al Consiglio superiore della magistratura (Csm), trascende il fatto meramente privatistico. La degenerazione delle correnti giudiziarie, inoltre, non si limita a questa lottizzazione. Essa si estende alla politicizzazione della Magistratura, che negli ultimi trent’anni ha inciso profondamente sulle istituzioni politiche, ha modificato il tradizionale assetto del sistema politico con indagini mirate contro alcuni partiti e i relativi esponenti, ha perseguito e in alcuni casi addirittura prodotto la crisi del Governo in carica e la formazione di maggioranze politiche diverse da quella espressa dalla volontà sovrana del corpo elettorale.

Le dichiarazioni che Luca Palamara, protagonista non secondario delle vicende della Magistratura in questi ultimi quindici anni, ha fatto nella nota intervista a Alessandro Sallusti, sono indicative in proposito. Egli ha affermato infatti di essere «consapevole di aver contribuito a creare un sistema che per anni ha inciso sul mondo della Magistratura e di conseguenza sulle dinamiche politiche e sociali del Paese» insieme a «colleghi magistrati, importanti leader politici e uomini delle istituzioni». Ha quindi riconosciuto di avere contribuito ad alterare il regolare funzionamento del sistema democratico, assumendo un ruolo politico del tutto estraneo e incompatibile con la funzione di magistrato. Particolarmente significative a questo proposito sono le vicende, da lui raccontate, che hanno caratterizzato l’Associazione Nazionale Magistrati (Anm) e le sue correnti interne in vista delle elezioni del maggio 2008 e della previsione, poi verificatasi, della formazione di quello che è stato il quarto governo Berlusconi.

Palamara, allora segretario della giunta centrista monocolore dell’Anm, fu invitato a dimettersi. Le correnti si ricompattarono, con la sola eccezione della corrente di destra, Magistratura Indipendente. Venne quindi eletto segretario Giuseppe Cascini, leader di Magistratura Democratica, cui fu lasciata ”mano libera nel fare opposizione feroce a Berlusconi”. L’Anm e le sue correnti interne, tranne una, hanno quindi agito, secondo quanto dichiarato da Palamara, come strumento organizzato di lotta politica contro il governo e contro la volontà appena espressa del corpo elettorale. La magistratura si è quindi di fatto trasformata, con una vera e propria “rottura della Costituzione”, da potere dello Stato di natura tecnica, incaricato di interpretare e applicare la legge, in un soggetto politico, privo di investitura democratica e di controlli, attivo nel tentativo di alterare gli equilibri politici dello Stato e di condizionarne l’indirizzo politico.

Questa profonda trasformazione della magistratura, che ha scardinato il disegno costituzionale, si è realizzata con l’utilizzo di una libertà, quella di associazione, che l’art. 18 cost. garantisce a tutti i cittadini, ma non ai poteri dello Stato e alla Magistratura in particolare. L’art. 104 cost. la definisce infatti come un “ordine”, sottolineando la sua natura di potere diffuso, costituito da quasi diecimila magistrati funzionalmente separati tra loro, e la mancanza di un vertice. È quindi implicito ma chiaro il divieto per i magistrati, in quanto tali e non come semplici cittadini, di costituirsi in una o più associazioni, per la cui esistenza è necessaria una struttura organizzativa, cioè un centro di potere interno che trasforma la molteplicità degli iscritti in un’entità unitaria collettiva, assoggettandoli a una disciplina interna per il perseguimento di fini che l’esperienza conferma essere anche politici.

Ma è proprio questa struttura centralizzata, unitaria o oligarchica poco importa, che la Costituzione non ha voluto, consapevole del rischio che i poteri coercitivi dei magistrati potessero essere distolti dalla loro finalità istituzionale per il perseguimento di interessi particolari o addirittura politici o partitici. In tal caso potrebbero essere minacciati i beni e la libertà dei cittadini, l’autonomia e l’indipendenza degli stessi magistrati, come da alcuni è stato lamentato, lo stesso principio della sovranità popolare. Sfruttando la libertà di associazione la Magistratura si è invece trasformata dallo stato diffuso in una ristretta oligarchia (le cinque correnti oggi esistenti) organizzata all’interno di una struttura più ampia: l’Associazione Nazionale Magistrati. Gli effetti negativi di questa preoccupante situazione sono oggi sotto gli occhi di tutti.

Le obiezioni al divieto per i magistrati di associarsi non appaiono sufficienti a negarne l’esistenza. Non lo è la natura soltanto implicita nella norma costituzionale. La mancanza di un esplicito divieto costituzionale non ha impedito infatti al legislatore ordinario di proibire ai magistrati l’iscrizione a un partito politico. A maggior ragione non può essere né accettato né tollerato che la Magistratura, integralmente o parzialmente, si aggreghi in associazioni a supporto di un partito e della sua azione politica. Non lo è il riferimento al principio pluralista. Non si può – si dice – impedire ai magistrati di differenziarsi tra loro in base ai rispettivi orientamenti culturali, che costituiscono una ricchezza per la Magistratura e per la stessa società e non possono e non debbono essere compressi.

Ma il pluralismo è garantito dalle libertà di manifestazione del pensiero e di riunione, che non sono intaccate dal divieto di associarsi. La libertà di associazione tende invece all’azione per il perseguimento di fini, che non è consentito alla Magistratura per evitare il rischio che la funzione giurisdizionale possa essere deviata dai suoi scopi. Essa d’altronde non ha altri fini oltre quello dell’interpretazione e dell’applicazione della legge.