Cosa bisogna intendere per “patria” e quali sono i suoi confini? Proviamo a rivolgerci ai classici letterari. Anche la nostra classe dirigente dovrebbe farlo, visto che insiste così tanto su identità italiana e tradizione. Ma prima dedichiamo solo un breve commento all’imbarazzante attualità. Farci dare dei “disumani” dai francesi, ammettiamolo, sembrava una impresa impossibile. Proprio dai francesi? La Francia, patria di appuntiti illuministi, di perfidi moralisti, di romanzieri devoti solo alla “aspra verità”(Stendhal), è un paese fondamentale per la costruzione della modernità stessa, ma così a occhio non appare segnato da una vocazione buonista-caritatevole (una commedia cinematografica francese è sempre un po’ più “cattiva” della omologa italiana). Eppure ci siamo meritati quell’epiteto, stavolta siamo stati più “cattivi” noi. Complimenti!

Torniamo al tema: il nazionalismo francese oscilla tra sciovinismo di grandeur e Dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’’89, tra etnocentrismo dell’ odiosa Action Francaise e idea di repubblica universale. Il nazionalismo italiano nasce perlopiù antidemocratico ai primi del ‘900, tanto che per ritrovare quella tensione universalistica dobbiamo risalire a Mazzini. Ma se andiamo più indietro, nella nostra tradizione, troveremo tutti gli anticorpi necessari contro qualsiasi nazionalismo etnico e aggressivo. E allora, cari patrioti, proviamo a consultare in proposito Dante, che ha inventato l’Italia assai prima di Cavour e Garibaldi. Nel De vulgari eloquentia leggiamo, perentoriamente: “Noi dunque, a cui il mondo è patria come ai pesci il mare”. Certo, per Dante il luogo di nascita definisce pur sempre la civitas di appartenenza, con i doveri che ciò comporta. Il poeta era uomo di parte, aveva partecipato alla stagione delle lotte comunali, e si è sempre sentito cittadino dell’amata Firenze, da cui venne condannato all’esilio. Eppure usa questa meravigliosa immagine, che viene da Ovidio, e ribadisce un principio a suo tempo formulato da Seneca. Pensate che la condizione di migranti sia una anomalia nella storia umana, o peggio una colpa, un fenomeno da contrastare con ogni mezzo?

Seneca, mandato in esilio in Corsica da Claudio, scrive una lettera per consolare la madre Elvia e farle sapere che l’esilio non è una cosa così mostruosa. Sentite cosa dice: “Cambiare residenza è un naturale bisogno dell’anima; l’uomo infatti ha un’indole mutevole e inquieta, non sta mai fermo, va di qua e di là”. Sapete perché? Perché siamo composti di materia celeste, non solo terrena, e “la natura dei corpi celesti sta nel continuo movimento; essi sono sempre in fuga, sempre in corsa vertiginosa”. Tutti noi siamo come le stelle che illuminano il mondo: “nessuna di esse è ferma”. Ma è impressionante l’elenco, assai mosso e colorito, che fa Seneca per dimostrare che popolazioni intere cambiano continuamente sede. Sembra una immagine ante litteram della globalizzazione recente. “Che significano le città greche sorte in mezzo a paesi barbari? E la lingua macedone tra i Persi e gli Indi? La Scizia e tutta quella regione abitata da popolazioni selvagge e indomite mostra città greche fondate sui lidi del Ponto; né il rigoredel lungo inverno, né l’indole degli abitanti, aspra come il loro clima, hanno scoraggiato quanti trasferivano lì le loro dimore. L’Asia è piena di Ateniesi; Mileto ha popolato settantacinque città sparse un po’ dappertutto; tutta questa costa dell’Italia bagnata dal Mare Inferiore divenne Magna Grecia. L’Asia si attribuisce gli Etruschi, i Tiri abitano l’Africa, i Cartaginesi la Spagna, i Greci si sono introdotti in Gallia e i Galli in Grecia, i Pirenei non hanno ostacolato il passaggio dei Germani.”.

E ancora: “Alcune popolazioni, avventurandosi verso terre sconosciute, furono inghiottite dal mare, altre si stabilirono là dove la mancanza di tutto le aveva fatte fermare. Non tutti hanno avuto gli stessi motivi per abbandonare la loro patria e cercarne un’altra: alcuni, sfuggiti alla distruzione della loro città e alle armi nemiche e spogliati dei loro beni, si volsero ai territori altrui; altri furono cacciati da lotte intestine; altri furono costretti a emigrare per alleggerire il peso di un’eccessiva densità di popolazione; altri ancora sono stati cacciati dalla pestilenza o dai frequenti terremoti o da altri intollerabili flagelli di una terra infelice, altri, infine, si sono lasciati attirare dalla notizia di una terra fertile e fin troppo decantata. Ognuno ha lasciato la sua casa per una ragione o per l’altra. Questo, però, è certo: che nessuno è rimasto nel luogo dove è nato. Incessante è il peregrinare dell’uomo”(Consolatio ad Helviam).

Così conclude il ragionamento: “Percorriamo tutta la terra, non vi sarà nessun esilio; infatti al mondo non c’è luogo che sia straniero all’uomo. Da ogni parte, egualmente, si può volgere lo sguardo al cielo; la distanza che separa l’uomo da Dio è sempre la stessa”. Perdonate le ampie citazioni ma in tutta la letteratura non vi è, credo, descrizione più precisa del fenomeno migratorio (le sue ragioni, le sue dinamiche, il suo intimo legame con la natura umana) e una rappresentazione così ispirata, felice di quel mutevole caleidoscopio di etnie che è il nostro stesso pianeta. Una istantanea memorabile (e aggiungo: simpatetica) dell’umanità sempre in movimento e in fuga, scattata duemila anni fa. Va bene i nostri attuali governanti forse non sono composti della stessa sostanza celeste degli astri. Tutto ciò che è movimento e migrazione non lo capiscono. Pazienza. Anche perciò vogliono che il nostro territorio sia un luogo “straniero” per altri uomini. Ma non hanno mai sentito, neanche per un momento, di stare al mondo come i pesci al mare, non hanno mai percepito questa appartenenza universale evocata dal padre della nostra lingua (e della nostra piccola patria)?