“Quella che Putin sta attuando in questa seconda fase della guerra è la strategia del caos”. A sostenerlo è uno dei più autorevoli studiosi del “pianeta” russo: Silvio Pons. Il professor Pons insegna Storia contemporanea alla Scuola Normale Superiore di Pisa. È presidente della Fondazione Gramsci.

Sostiene Putin: “Impegnati per la fine del conflitto ma l’Ucraina non negozia”. Professor Pons come interpretare le parole del presidente russo?
Come un segno di grande difficoltà. Non solo sul versante militare ma anche e per certi versi soprattutto su quello internazionale. È di grande rilevanza l’occasione in cui Putin ha fatto quelle affermazioni. A Samarcanda, nel corso degli incontri con i leader di due Paesi fondamentali per la Russia: la Cina e l’India. Fondamentali per ragioni geopolitiche e perché, cosa altrettanto se non più importante, perché a fronte delle sanzioni adottate dagli Stati Uniti e dall’Europa contro Mosca, e della “guerra del gas” in atto, Cina e India sono i Paesi più importanti verso i quali la Russia esporta il suo gas. Al di là delle dichiarazioni formali, di circostanza uscite dal vertice di Samarcanda, ciò che conta davvero è che Putin non ha avuto il sostegno che si attendeva né da Xi Jinping né da Modi. È sempre più evidente che la Cina sta giocando la sua partita che non prevede un appiattimento sulle posizioni dell’ “alleato” russo. Quanto all’India, l’affermazione del primo ministro Narendra Modi “Questo non è il tempo della guerra” non è certo stata presa da Putin come un segno di incoraggiamento e di sostegno. In molti hanno usato metafore metereologiche per sintetizzare l’esito del vertice di Samarcanda: “gelo”, “grande freddo” etc. Fuori di metafora, si può dire che da Samarcanda Vladimir Putin non ne esce più rafforzato. Tant’è che lo stesso zar del Cremlino ha dovuto, almeno verbalmente, rassicurare i suoi interlocutori, dichiarando che la Russia sarebbe per la pace ma chi non la vuole è l’Ucraina”. Salvo poi, a vertice concluso, correggere il tiro dicendo che la Russia “non ha fretta”.

Cosa c’è alla base di questa pur ondivaga correzione di tiro da parte di Putin?
Il fallimento della strategia del blitzkrieg. Putin aveva puntato se non tutto quasi tutto sul buon esito della “guerra lampo”, sottovalutando, anche per le errate informazioni che gli venivano dai vertici militari e d’intelligence, sulla volontà, prim’ancora che sulle capacità, di resistenza degli ucraini. Le affermazioni d’inizio guerra, i discorsi nei quali Putin e il suo entourage liquidavano sprezzantemente la leadership ucraina come una banda di alcolizzati nazisti, non erano solo parte di una narrazione propagandistica ad uso interno, ma anche la convinzione maturata al Cremlino. Niente di più sbagliato. Il prolungarsi della guerra e le sconfitte subite sul campo da parte russa, hanno avuto ricadute importanti anche nell’atteggiamento di Paesi cruciali per la Russia quali sono, come detto, la Cina e l’India. La strategia del blitzkrieg non era solo una dottrina militare ma il perno attorno al quale Putin intendeva far girare, a favore della Russia, la ruota degli equilibri internazionali di potenza. La strategia dei tempi brevi ha fallito. E col passare del tempo è diventato sempre più chiaro, anche agli occhi cinesi e indiani, che la guerra in Ucraina stava vieppiù trasformandosi in un fattore di destabilizzazione internazionale. In questa ottica, le parole di Modi suonano come un avvertimento per Putin. L’India, come anche la Cina, non intendono seguire la Russia su questa strada.

Si è detto delle dinamiche militari e della loro incidenza sul piano delle alleanze. E le sanzioni?
Qui il discorso si fa più complesso e meno univoco nella lettura della ricaduta della strategia sanzionatoria sia su chi la subisce e sia su chi l’ha promossa. Non c’è dubbio che le sanzioni abbiano inciso sull’economia russa, ma non quanto si pensava o si sperava a Washington come a Bruxelles. Le stime del Pil russo sono al ribasso ma ancora lontane dal segnalare un crollo. Le sanzioni possono incidere sul medio-lungo termine ma nel breve non sembrano avere quell’effetto dirompente tale da mettere in crisi il regime putiniano. C’è poi da ragionare sulla reazione della Russia alle sanzioni, penso in particolare alla “guerra del gas”. Una reazione che incide soprattutto sull’Europa e in Europa in particolare sulle economie di quei Paesi, come la Germania, la cui produzione industriale è sempre stata molto dipendente dalle forniture energetiche della Russia. Di nuovo, diventa cruciale il fattore tempo. Putin punta a logorare l’Europa, a ridurla, mai metafora fu più calzante, alla canna del gas. Da qui la strategia della fase 2 adottata dal Cremlino, una volta fallita quella del blitzkrieg e della divisione dell’Europa e della Nato. La strategia del caos.

Come sintetizzarla?
Non intendo invadere campi che non mi appartengono, ma per quel che mi consta sul piano militare, questa strategia comporta il mantenimento del controllo di territori cruciali, per molteplici ragioni, nell’est Ucraina, il che comporta il ribaltamento della situazione che si è determinata nelle ultime settimane. La strategia del caos, per realizzarsi, ha bisogno di spezzare l’avanzata degli ucraini e l’innesco di una controffensiva da parte russa. Cosa che non è affatto scontata. E su questo incide un fattore che a me pare sia ancora un po’ sottovalutato.

Vale a dire, professor Pons?
L’incidenza del fattore umano. Nell’analizzare gli eventi bellici, spesso l’attenzione si concentra sugli armamenti. Ora, non v’è dubbio che il miglioramento delle capacità militari dell’esercito ucraina sia dovuto anche alla fornitura di armamenti che in quantità e qualità hanno inciso sui rapporti di forza tra le due parti in conflitto. Ma “anche” non significa “solo”. Perché sempre più decisivo si sta rivelando, per l’appunto, il fattore umano. Nel senso che gli ucraini si sentono, sin dal primo giorno dell’invasione, in guerra. Una guerra che ha come posta in pallio l’indipendenza nazionale, l’integrità territoriale dell’Ucraina, il suo essere uno Stato indipendente in tutto e per tutto. In questo senso, nel senso della psicologia di una nazione, quella combattuta dagli ucraini è una guerra di popolo, così viene vissuta e partecipata. Gli orrori che la segnano, le fosse comuni, le stragi di civili, hanno rafforzato questa percezione. Lo stesso non si può dire per la Russia.

Perché?
Nella narrazione “putiniana” la parola “guerra” non è mai stata utilizzata nella propaganda interna. Si è sempre parlato di “Operazione speciale”. Non è una questione semantica ma politica. Il non parlare di “guerra” per gli strateghi del Cremlino significava tranquillizzare l’opinione pubblica russa, minimizzando così le ricadute sulla vita di tutti i giorni. Questa narrazione ha dovuto fare i conti con la realtà e dalla realtà è stata messa in crisi.

Una crisi che potrà avere ricadute sulla tenuta del potere “putiniano”?
Da storico faccio fatica a vestire i panni dell’indovino. Una cosa, però, è certa: il fatto stesso che ci si ponga questo interrogativo la dice lunga sull’andamento della guerra. Fino a qualche tempo fa, il solo ipotizzare una incrinatura nel regime di Mosca appariva un esercizio “letterario”, fantapolitica. Oggi non è più così. Sia chiaro: non siamo alla vigilia, più o meno prossima, di un terremoto politico a Mosca. Nel corso degli anni, Putin ha saputo costruire attorno a sé un potere oligarchico che si è ramificato in ogni ganglio vitale della società, dell’economia, degli apparati statali della Federazione Russa. È indubbio, però, che emergono dei segnali che danno conto delle difficoltà che Putin sta incontrando sul piano interno.

A cosa si riferisce?
Penso, ad esempio, alla presa di posizione contro la guerra di singoli parlamentari, soprattutto a San Pietroburgo. Parlamentari che erano comunque contrari sin dall’inizio, o quasi, alla prova di forza contro l’Ucraina. È comunque significativo che queste voci siano cresciute in numero e intensità. Così come è estremamente significativa delle difficoltà del regime la decisione di togliere la licenza a una importante testata giornalistica come Novaja Gazeta. Ma il dato più nuovo e per certi versi ancor più inquietante, è l’emergere di un secondo fronte interno per Putin: quello degli ultranazionalisti che, a differenza del Presidente, vorrebbero che si parlasse esplicitamente di guerra e soprattutto che si agisse di conseguenza in termini di mobilitazione di uomini e di uso massivo della potenza militare. Il crescere di questo fronte non una buona notizia per l’Europa.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.