Avrei questa umilissima osservazione da fare a proposito del “No a tutte le guerre” che riassume il comune intendimento pacifista. E cioè che lo slogan ha cominciato a diffondersi e impennarsi non quando i russi hanno attaccato gli ucraini, ma quando questi hanno preso a difendersi. E un’altra: che quel pacifismo – rispettabilissimo, per carità – dal primo momento e poi durante i bombardamenti sembrava rivolgersi contro l’ipotesi di una guerra che avrebbe potuto esserci, trascurando la guerra che c’era. Che le due mende affliggano magari non tutto, ma una buona quota dell’atteggiamento pacifista, a me pare abbastanza evidente. E, di fatto, salvo il routinario riconoscimento che l’aggressore è uno e l’aggredito è l’altro, resta che siccome uno non smette di aggredire allora la colpa somma è dell’aggredito che non si arrende. Che a noialtri poco perspicaci sembra un cortocircuito logico mica male.

Un’ultima, sommessa nota. Tra gli argomenti adoperati non dico a favore degli uni (gli aggressori), ma certamente a contrasto degli altri (gli aggrediti), c’è che questi non possono vincere: ciò che, secondo quella prospettazione, aggrava la responsabilità di chi non si arrende. Domanda: quindi se l’aggredito ha la possibilità di vincere cessano le ragioni che fan gridare “No a tutte le guerre”? Mi rendo conto che si tratta di considerazioni grossolane, e sprovvedute di sufficiente dottrina: ma mi piacerebbe capire dove pecchino nel merito. E perché.