Come si fa a non essere d’accordo con monsignor Vincenzo Paglia, il suo accorato e appassionato “Attento Occidente, non si fa la pace a colpi d’arma da fuoco” (Il Riformista, 9 marzo). Solo (purtroppo c’è sempre un “solo”), che il problema non è tanto fare “noi” la pace a colpi d’arma da fuoco, quanto impedire che “loro” facciano la guerra. Ci sono le classiche cinque domande: chi? Dove? Quando? Come? Perché? Per quattro interrogativi la risposta c’è, a volerla vedere. È il “come” che non si sa bene come attuare. Un presidente americano, insignito, per quello che vale, del premio Nobel per la pace (Theodor “T.R” Roosevelt, quello dell’orsacchiotto), era solito raccomandare: “Speak sofly and carry a big stick; you will go far”, “Parla piano e porta un grosso bastone, andrai lontano”. Significa, al di là del “bonario” motteggio: cercare di far uso di una intelligente previdenza, e nel caso un’azione decisa in anticipo a una probabile, possibile crisi.

Monsignore: certo che il conflitto in atto va “chiuso. Subito. Immediatamente”. Certo: per un’esigenza “etica, umana, storica, strategica”. Certo: non si deve cadere nella possibile trappola. Come? Monsignore: si domanda, e ci domanda, se non sia in atto un tentativo “davvero diabolico di assuefazione alla guerra”… Monsignore, lasci stare il diavolo dove sta: siamo capaci di fare tutto da soli, noi umani. Nessun tentativo, ci siamo assuefatti: dov’era la nostra angoscia e preoccupazione quando sempre Putin radeva al suolo Groznjy, e massacrava i civili ceceni? Quando occupava la Crimea? Quando massacrava i civili siriani? Quelle guerre si trascinano da anni, come in Africa, come in molte parti dell’Asia. A gennaio, dov’eravamo quando Putin, con i suoi Specnaz puntellava il regime fantoccio di Qasym-Jomart Kemelūly Toqaev in Kazakistan? Eppure un generale (ogni tanto, cum grano salis, vanno pure loro ascoltati), Wesley Clark, comandante della Nato al tempo dell’intervento in Kosovo, a gennaio ci ha messo in guardia: «L’ambizione di Putin è ristabilire il predominio sull’Eurasia che aveva l’Unione Sovietica. Finora non è stato capace di farlo, ma sfrutta ogni occasione per provarci. Perciò ha assalito l’Ucraina, allo scopo di ricostruire la sfera d’influenza di Mosca. In Kazakistan ha reagito con forza e rapidità per tenere in piedi il regime amico e riaffermare il controllo sui territori dell’ex impero sovietico nell’Asia centrale. Un’azione militare molto violenta, condotta insieme da forze speciali e non convenzionali: la caduta di Tokayev sarebbe un segnale molto negativo non solo per le ambizioni imperiali di Putin, ma anche per la sua stessa presa sulla Russia».

Certo, Monsignore, la guerra “è sempre una follia”; anche se non è sempre vero, purtroppo, che non ci sia un conflitto che si possa giustificare. Ce ne sono che si giustificano eccome, ed è proprio qui la gravità, la tragicità della situazione. Contro i nazi-fascisti, la giustificazione c’era eccome! E non credo sia da dirlo in Israele, che certi conflitti del passato contro le nazioni arabe non si giustificavano. C’è chi si domanda che cosa avrebbe detto e fatto un campione della nonviolenza come Marco Pannella; ovvio che non c’è risposta. Però quando ci fu l’invasione della Cecoslovacchia da parte sovietica e delle truppe dell’allora Patto di Varsavia, con Silvana Leonardi, Antonio Azzolini, Marcello Baraghini, si fece arrestare a Sofia, in Bulgaria; e pur gravemente malato, fu l’unico parlamentare europeo che partecipò a Mosca al funerale di Anna Stepanovna Politkovskaja, la giornalista assassinata dai killer di Putin. È dunque chiaro da che parte si sarebbe schierato. So che non si stancava di ripetere che «è vergognoso, come diceva Gandhi, che quando bisogna lottare in difesa dei diritti di vita, devi scegliere tra il non farlo e il farlo con le armi; e che a questo punto, meglio il violento che difende il nonviolento sui diritti negati contro l’oppressione, che non il codardo che non fa nulla».

Peccato, Monsignore, che il suo articolo/invocazione sia pubblicato in italiano. In lingua russa, andrebbe tradotto; sarebbe cosa buona e giusta distribuirlo là, in Russia: nella piazza Rossa di Mosca, davanti al Cremlino; nella Dvorcovaja Ploščad di San Pietroburgo; a sostegno e conforto di quanti, in queste ore manifestano non tanto “per” una generica pace, quanto “contro” una specifica guerra; e per questo vengono picchiati, minacciati, arrestati. È vero, Monsignore: «Dobbiamo scegliere la pace. La giustizia si fa con la pace e nella pace, non si genera a colpi di armi da fuoco». Ma chi parla di “denazificazione”, di “drogati” da sterminare; di guerra santa contro gli omosessuali? Monsignore: è bella l’immagine di Santo Francesco che parla e ammansisce il lupo; ma la nuova Gubbio terrorizzata è l’Ucraina; e la tana del lupo è a Mosca. Sommessamente, Monsignore, direi che è da lì che occorre cominciare.

Per parte mia, rivolgo un grazie a Ezio Mauro; su Repubblica scrive: “Quando cantiamo in corteo “Bella Ciao”, noi rinnoviamo l’impegno per la libertà e per la democrazia”. Ora forse capisco perché nei “nostri” cortei Bella ciao non viene cantata. La cantano invece in Ucraina. Continuo però a non capire perché chi non aveva remora a urlare “Yankee go home”, oggi non se la sente di sussurrare “Putin idi domoy”. Putin dice che chi resiste in Ucraina è un drogato; il patriarca ortodosso Kirill benedice la guerra, perché è contro gli omosessuali. Manca il complotto giudaico dei “Savi di Sion”; ci si arriverà: o si comincia con gli ebrei, o si finisce con gli ebrei, ma degli ebrei non ci si dimentica mai. Del resto, il presidente Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj, cos’è se non un “perfido giudeo”?