Solleva parecchie perplessità, etiche e giuridiche, la decisione con cui il Consiglio superiore della magistratura, lo scorso 28 gennaio ha deciso, a stretta maggioranza (12 favorevoli contro 9), di archiviare la segnalazione del Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli in riferimento al dott. Catello Maresca, suo sostituto.

Secondo quanto riportato anche su queste colonne, infatti, il dottor Maresca ha avviato da tempo contatti politici in vista della sua candidatura alla carica di sindaco di Napoli, cioè della stessa città in cui esercita le proprie funzioni. Notizia non confermata ma nemmeno smentita dall’interessato il quale, alla richiesta di chiarire le sue intenzioni, formulata pubblicamente dal Vice Presidente dell’Anm, per tutta risposta vi si è dimesso, così da non sottostare – è ragionevole supporre – al suo Codice etico. Secondo l’articolo 8 di tale Codice, infatti, il magistrato “mantiene una immagine di imparzialità e di indipendenza” e, a tal fine, “nel territorio dove esercita la funzione giudiziaria (…) evita di accettare candidature e di assumere incarichi politico-amministrativi negli enti locali”.

Da tale reticenza, quindi, la doverosa segnalazione del Procuratore generale al Csm perché valutasse se la “campagna elettorale”, seppur sottotraccia, avviata dal dottor Maresca configurasse i presupposti per il suo trasferimento coattivo per incompatibilità ambientale – che scatta quando i magistrati “per qualsiasi causa indipendente da loro colpa non possono, nella sede occupata, svolgere le proprie funzioni con piena indipendenza e imparzialità” (art. 2 r. d.lgs. 511/1946, corsivo mio) – e/o per l’avvio di un’azione disciplinare nei suoi confronti per lesione del prestigio dell’ordine giudiziario e dei doveri inerenti alla funzione esercitata in conseguenza, si può ipotizzare, della sua partecipazione sistematica e continuativa a partiti politici (art. 3.1.h) d.lgs. 109/2006).

Il Csm, invece, ha deciso di archiviare il caso perché, in mancanza di un espresso divieto, il magistrato può candidarsi alle elezioni amministrative in forza del diritto di accesso alle cariche pubbliche (art. 51 Cost.). Difatti, nel nostro ordinamento, al magistrato è fatto divieto di candidarsi (se non dimettendosi) solo nelle elezioni politiche e limitatamente alla circoscrizione dove ha esercitato (nei sei mesi precedenti) o esercita le sue funzioni. Se invece si vuole candidare per il Parlamento altrove (v. caso Ingroia; art. 8 d.p.r. 361/1957) oppure nelle elezioni regionali o locali dove esercita le sue funzioni basta che si metta in aspettativa al momento della presentazione delle candidature; aspettativa addirittura non richiesta se si vuole candidare altrove (v. rispettivamente artt. 2 l. 154/1981 e 60 d.lgs. 267/2000). È quindi possibile, e di fatto accaduto, che un pubblico ministero si candidi e venga eletto in una lista politica avversa a quella di appartenenza di un esponente politico contro cui aveva promosso e condotto alcune indagini di rilevante clamore mediatico.

Il magistrato può anche assumere cariche all’interno dei governi regionali e locali nel territorio in cui esercita le proprie funzioni anche in questo caso mettendosi semplicemente in aspettativa. Aspettativa non richiesta se vuole assumere tali cariche nei territori locali dove non esercita – ma magari ha appena finito di esercitare – le proprie funzioni. Per quanto paradossale a dirsi, il magistrato può, dunque, contemporaneamente svolgere funzioni politico-amministrative in un ambito territoriale diverso da quello in cui svolge funzioni giudiziarie, senza essere obbligato né a chiedere, né a ricevere l’autorizzazione dal Csm. Lo stesso Csm, al riguardo, ha dovuto sconsolatamente ammettere di non essere in grado di effettuare “una ricognizione circa il numero dei magistrati impegnati contemporaneamente in funzioni giurisdizionali ed in funzioni politico-amministrative” (parere del 21 maggio 2014).

Le carenze della vigente disciplina legislativa sono state oggetto di severe censure da parte sia del Gruppo di Stati contro la corruzione (Greco), organo consultivo del Consiglio d’Europa, secondo cui essa solleva “questioni importanti dal punto di vista della separazione dei poteri e per quanto riguarda l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici” (rapporto 2016), sia dello stesso Csm che fin dal 2015 ha inutilmente invitato il Ministro della Giustizia a modificarla in senso più restrittivo, anche vietando il ritorno in magistratura per chi si è stato eletto o anche solo candidato. Ed è proprio l’assenza di un divieto legislativo di candidatura che ha indotto il Csm ad archiviare la pratica del dottor Maresca.

Decisione però che lascia perplessi perché il punto sollevato non era solo il diritto del dottor Maresca di candidarsi nelle prossime elezioni amministrative ma anche, in vista di esse, di poter intrattenere non episodici e casuali contatti (non smentiti) con esponenti politici che ne minano irrimediabilmente la necessaria immagine di imparzialità e indipendenza. È questa, del resto, la via stretta delineata dalla Corte costituzionale nella recente sentenza sul noto caso Emiliano (sentenza n. 170/2018) in cui ha affermato che i magistrati possono candidarsi ma senza iscriversi o partecipare in modo sistematico e continuativo all’attività di un partito perché tenuti al rispetto degli obblighi d’imparzialità ed indipendenza imposti dall’appartenenza all’ordine giudiziario. Ed è su questo profilo, opportunamente sollevato in via complementare dal Procuratore di Napoli, che la decisione del Csm pare omissiva, se non carente anche sotto il profilo istruttorio, essendosi inopportunamente respinta anche la richiesta di un supplemento d’indagine che avrebbe comportato la convocazione dello stesso Maresca.

Ma al di là di tali considerazioni giuridiche, questo caso, insieme a molti altri (non ultimo la pavloviana incontinenza verbale che affligge taluni magistrati al cospetto di telecamere e giornalisti), dimostra come parte di essi abbia complemento smarrito il senso di riserbo, equilibrio e misura al quale devono sempre attenersi nei loro comportamenti pubblici e privati. C’è ancora qualcosa di vero nell’espressione di Federico II per cui “la giustizia regna nel silenzio”.

E a quanti ancora, nonostante tutto, continuano pervicacemente a ripetere il ritornello che il magistrato è un cittadino che, al pari degli altri, ha diritto di partecipare alla vita culturale, sociale e politica della comunità in cui vive e opera, forse vale la pena di ricordare che, prima ancora di essere un cittadino, egli rimane innanzitutto, sempre e dovunque un magistrato; un magistrato-cittadino, dunque, e non un cittadino-magistrato, perché i doveri e i limiti derivanti dalla sua funzione devono sempre prevalere inevitabilmente sull’esercizio dei suoi diritti politici, imponendogli di apparire – oltreché essere – imparziale.