Non era difficile comprendere che la scelta di un ex prefetto come successore di Matteo Salvini al ministero dell’Interno era frutto di una impronta tecnicista e segno di sostanziale rifiuto di una discontinuità proprio laddove era più necessaria. Così come sarebbe stata decisiva una svolta in via Arenula, al ministero della Giustizia. La responsabilità è certo del Partito Democratico che si è dimostrato privo di egemonia sul terreno qualificante dello stato di diritto e della democrazia, ma grave è stato l’errore del Presidente Mattarella ad accettare l’indicazione di un prefetto a capo del Viminale, dove Luciana Lamorgese ha compiuto la sua carriera. Si sarebbe dovuto ricordare l’esempio di Giorgio Napolitano che rifiutò la nomina di Gratteri a ministro della Giustizia.
Finora la presenza di Lamorgese era stata caratterizzata da un inquietante vuoto pneumatico, ma alla fine l’imprinting reazionario è emerso con l’annuncio di una stretta repressiva in tema di lotta alla droga. È davvero clamoroso che si debba leggere che sarebbe stata predisposta, di concerto con il ministero della Giustizia «una norma per superare l’attuale disposizione dell’art. 73 comma cinque che non prevede l’arresto immediato per i casi di spaccio di droga» e per prevedere la «possibilità di arrestare immediatamente con la custodia in carcere coloro che si macchiano di questo reato». Un ministro dell’Interno che si rispetti dovrebbe conoscere i dati e dovrebbe sapere che per violazione dell’articolo 73 della legge antidroga, il Dpr 309/90, nelle galere italiane le presenze per questa imputazione assommano a oltre il 35%, cioè più di 21.000 persone.
Ma politicamente è assai grave che la ministra Lamorgese faccia propria la proposta di Salvini, che ha depositato alla Camera una proposta di legge per abolire sostanzialmente la fattispecie della lieve entità. Molti anni fa con il magistrato Alessandro Margara riuscimmo a far approvare una modifica per cui il quinto comma dell’art. 73, oggi criminalizzato, fosse trasformato da attenuante a fattispecie autonoma. Una ricerca svolta recentemente nelle carceri toscane ha dimostrato che quella modifica non basta e che la lieve entità deve diventare un articolo autonomo per evitare il gioco delle tre carte, per cui si arresta genericamente per violazione dell’art. 73 (detenzione o piccolo spaccio) e solo al processo viene riconosciuta la responsabilità minore. Questa proposta è stata presentata dall’on. Riccardo Magi e di questo bisogna parlare e non di war on drugs all’amatriciana che avrebbe l’effetto di far aumentare il numero dei detenuti da 61.000 a settanta o ottantamila, con la conseguenza di far scoppiare le carceri e costringendo la Corte europea dei diritti umani a condannare di nuovo l’Italia per trattamenti crudeli e degradanti.
Sfido la ministra a fornire i dati su quanti casi di lieve entità che non dovrebbero entrare in carcere, subiscono questo destino. La ricerca dell’Ufficio del Garante dei detenuti della Toscana ha fatto emergere un dato impressionante della Corte d’Appello di Firenze: le condanne relative al comma 5 dell’art. 73 sono esplose dal 25% nel 2013 al 49% nel 2017; in cifre assolute da 145 a 463. Clamoroso è il dato del peso straordinario dei reati di droga sul carcere rispetto ai delitti contro il patrimonio, la persona o la pubblica amministrazione. Ogni due processi per droga vi è una condanna, mentre per i reati contro la persona e contro il patrimonio vi è una condanna ogni dieci processi. Questa piramide rovesciata meriterebbe una seria riflessione. La verità è che la repressione si concentra su una questione sociale e in particolare sui pesci piccoli.
Nel mondo sulla politica delle droghe si sta cambiando passo, tanto che non solo in Uruguay e in Canada, ma anche in molti stati (dal Colorado alla California) degli Stati Uniti è stata legalizzata la canapa, riducendo il potere delle mafie e del mercato illegale. In Italia trionfa ancora la propaganda e la demagogia. Il 28 e 29 febbraio a Milano, presso la Camera del Lavoro, si svolgerà una Conferenza nazionale sulle droghe in assenza di quella del Governo che non viene convocata da venti anni (non considerando le finte conferenze, vere farse, indette da Giovanardi a Palermo e Trieste, l’ultima si tenne a Genova con Don Gallo) in violazione della legge che prevede un appuntamento ogni tre anni per valutare gli esiti delle politiche adottate e prevedere i necessari cambiamenti.
La svolta punitiva sulle droghe in Italia risale al 1990 con l’approvazione della legge Iervolino-Vassalli, e quindi a trent’anni fa. Nel 2006 fu approvata una variante più repressiva, la cosiddetta legge Fini-Giovanardi che equiparò, sul piano simbolico e materiale delle sanzioni, droghe pesanti e leggere, con la previsione di pene da otto a venti anni di carcere. Si dovette aspettare la decisione della Corte Costituzionale nel 2014 per cancellare un obbrobrio del diritto. Di fronte a questa provocazione, a Milano reclameremo le dimissioni di una ministra di polizia.
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