Cosa è oggi il M5S? Non è bastato annunciare il voto a Macron e dare l’addio al sostegno per i piani insurrezionali dei gilet gialli. Adesso anche il residuo di finanziamento pubblico diventa una risorsa appetibile per una creatura rimasta orfana della Casaleggio. Il M5S è sempre più un enigma, altro che normalizzazione dei barbari sedotti dalle comodità romane. Quanto più scioglie i suoi nodi programmatici secondo una prospettiva genericamente progressista tanto più diventa un animale (anti)politico concettualmente sfuggente. L’indifferentismo programmatico da sempre rientra tra i connotati distintivi di un movimento antipolitico.

Il passaggio, che non teme il principio di contraddizione, da una posizione all’altra sulle questioni in agenda evidenzia la caratura di un soggetto ambiguo la cui identità consiste nella volontà di abbattere un sistema rispetto al quale si rimarca la estraneità. Da questo punto di vista il M5S, con la scomparsa di ogni sistema di partito strutturato, sconta una crisi da compimento. Il disegno fondativo di demolire il congegno bipolare è stato realizzato. Ottenuto l’obiettivo massimale, dinanzi al prodotto della Casaleggio rimaneva una alternativa secca: imporre un nuovo sistema ridefinito secondo l’impronta egemonica del grillismo o integrarsi nelle pieghe di quello che rimaneva dell’antico ordine, convivendo con il rischio che il sistema sussistente ne depotenziasse la carica eversiva.

La prima opzione di costruire un regime nuovo con interpreti inediti è stata perseguita con il governo dei due populismi guidato da un presidente del consiglio sin troppo servizievole. Non è mancata allora la volontà di rompere e non a caso con l’Europa, con il Quirinale, con la Francia il M5S nella sua fase ascendente ha usato le maniere forti. Lo scontro è stato reale e il proposito di spezzare gli equilibri istituzionali e le appartenenze internazionali ha ispirato le azioni grilline. La rottura del governo del contratto non è avvenuta per un rinsavimento del M5S all’insegna dell’umanesimo contiano, ma per una improvvida mossa del Papeete. È stato Salvini del tutto inopinatamente a interrompere una convivenza che lo rafforzava quotidianamente. La Lega appariva come il potere forte entro un sistema nel quale il marchio dominante era impresso dal sovranismo. Con il suo populismo più forte, alimentato di continuo con una immagine del nemico palpabile, la Lega era destinata a primeggiare sul populismo a gradazione più debole dei grillini, cantori balconieri per la definitiva sconfitta della povertà.

Sfumata, e unicamente per il disimpegno leghista, la velleità di edificare un regime sovran-populista, il M5S ha dovuto gestire una ritirata che, per la insipienza tattica dei nuovi alleati Zingaretti-Bettini, si stava rivelando una insperata occasione per abbozzare una nuova operazione egemonica. Se con le chiassose truppe di Salvini la voce grillina appariva alquanto debole, con le armate del Pd, accampate nei luoghi istituzionali, proprio le teste di turco grilline assumevano il comando (imposizione di una riforma costituzionale di cui si tornerà a parlare per gli scompensi che inevitabilmente produrrà). La strutturale impossibilità di governare un’emergenza con una coalizione a spiccato traino grillino ha eroso le basi parlamentari del governo giallorosso. Dopo aver rinunciato ai muscoli anti-euro, per mostrare la fresca propensione ad assecondare una vocazione europeista come quella coltivata dal Pd, al M5S è toccata una ulteriore metamorfosi: rinunciare ad ogni visione autonoma per esibire una propensione organica a piegare la schiena su tutto quanto sforna il governo tecnico come decisione accettabile.

Il problema non è di semplice logica formale. L’incoerenza non è necessariamente un disvalore in sé nell’agire politico, su questo ha ragione “il gagliardo materialista storico” Ferrara. La vera questione è di capire le ragioni dell’incoerenza come fenomeno che va indagato al di fuori di ogni esibizione di censura di stampo morale. All’indifferentismo per forza, che caratterizzava il M5S nel suo tempo trionfante, segue l’indifferentismo per debolezza, che distingue il M5S che prova a sopravvivere agli eventi grazie alle risorse di governo. Non esiste più l’incoerenza del movimento combattente che subordinava i dettagli programmatici all’esibizione muscolare del tema più forte dell’identità grillina: tutti a casa. Oggi domina l’incoerenza del movimento declinante che, perduta la credibilità di un gruppo ostile e irriducibile al gioco delle alleanze, campicchia con le dotazioni residuali che restano a disposizione nell’accampamento romano. Senza più il comico celebre che si dichiara ormai “stanchino” nell’arte di urlare l’inno della ribellione, rimasto privo dell’ausilio organizzativo-comunicativo della azienda, sprovvisto dei link originari con forze estere influenti, il M5S oscilla da una posizione all’altra e la follia della incoerenza diventa una esibizione necessaria. Serve per sopravvivere e non certo per dare la prova della sua avvenuta maturazione razionale.

È evidente che, con le prove sfornate a raffica tese a mostrare al mondo di aver appreso l’arte della negoziazione e i tempi della politica, per il M5S sorgono più problemi che soluzioni rassicuranti. La strategia della normalizzazione-istituzionalizzazione di un partito che si aggrappa alla fortezza del 10 % come ragione esistenziale ultima postula pur sempre una leadership, un ceto politico, una cultura politica che non sembrano però a disposizione del movimento, condannato per questo vuoto a vagare da una abiura all’altra senza trovare mai pace se non nella estinzione.
Non c’è tema cruciale sul quale il non-partito abbia mantenuto con fermezza il punto di vista originario. Su tutto lo scibile cambia celermente orientamento perché, per una forza come quella grillina, l’opportunismo è congenito e non è mai il contenuto effettivo delle singole proposte a definirne la natura. Una formazione che fa dello strumento (digitale) la propria ideologia (democrazia diretta) andrebbe decifrata non sulle singole abiure, ma sulla persistenza di una condizione che resiste al cambio delle vedute congiunturali.

E questo elemento o residuo che permane nel mutare incessante delle formule o derivazioni programmatiche è contenuto nel mito della democrazia diretta. Attraverso questo mito fondativo, tutto è decidibile perché niente appare solido in un non-partito che è un quesito cui segue un plebiscito digitale. La illiberale torsione organizzativa costituisce l’identità originaria del M5S. Il pronunciamento della piattaforma si configura come un ritrovato plebiscitario escogitato solo per evitare le faticose procedure di un governo della discussione. On line il connesso alla piattaforma decide apparentemente tutto mostrando il volto di un non-partito che oltre la mitologia della rete non è nulla. Non a caso Conte fonda su ciò che non intende essere (un partito) l’identità di una forza in declino che rimane aggrappata al sogno populista.