Nessun accordo su relatore unico
Legge di bilancio, scontro tra grillini e dem sul relatore

«Fermatelo, non fate entrare Errani, abbiamo messo il veto…». Scherza Giuseppe Conte al piano ammezzato di palazzo Madama dove passa per caso perché non è eletto ma sa che qui deve stare per capire che succede e, soprattutto, far vedere che ha in mano la situazione come un vero capo tribù. Errani a sua volta ride e scherza. Ma quando la riunione dei capigruppo di centrosinistra termina, la fumata è rigorosamente nera. Niente da fare: non c’è accordo sul relatore della legge di Bilancio. I 5 Stelle non mollano: vogliono il “loro” relatore, così come lo vuole il Pd e anche il centrodestra.
Simona Malpezzi (Pd), Mariolina Castellone (M5S) e Loredana De Petris (Leu-Misto) si sono riunite con il presidente della commissione Bilancio di Palazzo Madama, Daniele Pesco, per sciogliere il nodo dei relatori. Ma l’impasse è rimasto. Il Pd propone due soli relatori, uno di centrodestra e l’altro Vasco Errani (Leu) per il centrosinistra. Il Movimento 5 Stelle vuole avere il proprio relatore. «È una legge troppo importante per farci rappresentare da altri» ha spiegato la capogruppo Castellone. «Avete D’Incà ministro per i Rapporti col Parlamento, la viceministro Castelli, siete già molto rappresentati» osservano i dem. I 5 Stelle non si fidano. Devono tutelare le loro misure bandiera, dal reddito di cittadinanza al superbonus del 110%. Soprattutto devono avere visibilità e palcoscenico. Non hanno alcuna intenzione di farsi rappresentare dai dem. Toccherà al presidente Pesco, questa mattina prendere una decisione: le audizioni tecniche sono finite (ieri sera alle 20.30 l’ultima con il ministro economico Daniele Franco) e oggi al massimo la discussione deve essere incardinata. È già stato perso fin troppo tempo.
La baruffa sul relatore, che ormai va avanti da una settimana, è solo un capitolo della fibrillazione continua nelle due coalizioni. A destra così come a sinistra. Una situazione talmente balcanizzata che tra palazzo Madama e il Transatlantico di Montecitorio nessuno osa scommettere su nulla: data del voto, candidato Presidente, sistema elettorale. E se lato 5 Stelle – i gruppi e non Conte e il suo gabinetto di vice, due entità distinte – si parla di «voto nel 2023, Mattarella che alla fine sarà costretto al bis» e di legge elettorale di tipo “proporzionale”, sul fronte opposto, nei capannelli della Lega, si arriva anche ad ipotizzare «una possibile uscita dalla maggioranza». E circa gli alleati: «Noi abbiamo Salvini premier nel simbolo, ti pare che possiamo fare una campagna con un sistema elettorale semi maggioritario che potrebbe andare ad incoronare Meloni premier?». Eh già, in effetti non torna. L’unico che tra un sorriso, una battuta e una provocazione non esclude il voto politico nel 2022, «dopo le amministrative a maggio e quindi – perché no – anche in autunno» è un ex ministro Pd molto vicino alla segreteria Letta. «Del resto, dopo la legge di bilancio e l’elezione del Capo dello Stato – spiega seduto in un divanetto del Transatlantico – la legislatura è finita. È già sfilacciata adesso…». E la legge elettorale? «Non serve, andremo a votare con quella che già abbiamo».
Un maggioritario corretto che consentirebbe al Pd di cannibalizzare i 5 Stelle e le formazioni di un “centro liberale-riformista” che avrebbe bisogno di tempo per strutturarsi. Mentre l’ex ministro parla, nel corridoio che costeggia l’aula si vede il segretario che parla fitto fitto con Bersani. Le voci della imminente reunion sono sempre più insistenti. Il Pd è in ordine sparso tra chi vuole il voto subito (gli ex Ds) e chi, colpa anche della inevitabile sostituzione in blocco della parte ex renziana, riformista e centrista, vuole invece allungare i tempi. I mal di pancia hanno, per entrambe le fazioni, la stessa origine: i 5 Stelle che «stanno rialzando la testa e l’asticella». Si racconta della riunione avvenuta un paio di settimane fa a Bruxelles quando il segretario Letta è andato a spiegare che i 5 Stelle sarebbero entrati nella grande casa comune dei socialisti europei. «Nessuna obiezione – ha chiesto – è una questione di politica nazionale». Gli europarlamentari dem non hanno fatto i salti di gioia. Ma soprattutto da allora – e sono passate circa tre settimane – nessuna richiesta è stata formalizzata da parte degli 8 eurodeputati M5s. Questa resistenza sul relatore della legge di bilancio insieme ai desiderata circa una legge elettorale di tipo proporzionale, sembrano mandare in fumo l’idea stessa della coalizione a traino Pd con Leu e 5 Stelle a fare i cespugli.
Di sicuro i grillini ricominciano a pensare di non voler “morire” piddini. Cosi come i berluscones non vogliono “morire” tra le braccia accoglienti di Giorgia Meloni o i selfie di Matteo Salvini. Il problema nel centrodestra ormai ribattezzato destra-centro è soprattutto Berlusconi. E le vendette di Meloni. In otto giorni ha risposto picche al Cavaliere due volte: quando ha detto sì al Tavolo di Letta su legge di bilancio e patto per il Quirinale; quando ha detto che il «reddito di cittadinanza è utile per combattere la povertà». Due affermazioni, a sei giorni una dall’altra, che hanno fatto andare in bestia Meloni: «Abbiamo fatto l’accordo di coalizione per Berlusconi presidente. Ci mancano pochi voti che possiamo trovare al momento opportuno. Se lui va al Tavolo con Letta, vuol dire che non è più interessato ai nostri voti». Intanto ieri Berlusconi, che un giorno dopo l’altro cerca nuovi appoggi per il Quirinale, ha incassato l’endorsement di Manfred Weber, presidente del Ppe: «La sua candidatura è molto ragionevole, ha sempre difeso l’Europa e l’Italia nell’Europa». E anche, in qualche modo, di Di Maio: «Bene sul reddito, lo spieghi ai suoi alleati».
Salvini ha i suoi problemi con i governatori di centrodestra – sono giornate di continue riunioni da remoto – in vista della nuova stretta sui green pass. Il consiglio dei ministri è previsto domani. E la stretta molto probabilmente ci sarà. Proprio come chiedono i governatori che temono nuove chiusure e proprio per le vacanze. Il segretario sarà costretto ad abbozzare. Ma fin dove? E fino a quando? Da qui le voci parlamentari non tanto di un voto anticipato ma di un’uscita dalla maggioranza che diventerà totalmente Ursula, cioè con Forza Italia. Movimenti e ribaltamenti continui che Mario Draghi osserva da palazzo Chigi. Non bisogna essere fini intenditori di tattiche parlamentari per capire che in questo momento il Parlamento è un concentrato di inaffidabilità.
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