Il direttore Claudio Cerasa, su Il Foglio del 7 ottobre, a proposito dall’elezione di Matteo Lepore a sindaco di Bologna, svolge una condivisibile riflessione sui pregi della competizione. Primarie vere, unite all’elezione diretta del sindaco, generano competizione, “la competizione genera innovazione, l’innovazione genera rinnovamento”. Niente di più condivisibile. Ma cos’è questa competizione? In fondo ogni elezione, purché non sia finta e garantisca l’accesso a chiunque, genera competizione. Perché citare quel caso? Perché quel caso è la prova che non tutte le competizioni sono eguali dal punto di vista delle dinamiche, virtuose o viziose, che innescano.

Per produrre effetti virtuosi, innanzitutto le competizioni debbono essere “vere”, cioè non essere frutto di collusione tra i concorrenti. Ma devono essere vere anche nel senso che esse producono un risultato tangibile in cui c’è un vincitore e dei vinti. Infine le competizioni debbono avere una posta in gioco rilevante: per cosa si compete? Insomma chi compete e chi partecipa deve sentire che ne vale la pena, che la scelta è rilevante. Nell’elezione del sindaco queste condizioni si realizzano abbastanza. “Abbastanza” perché il sindaco comunque ha poteri limitati, non è il presidente della Repubblica o del Consiglio. Ma il capo del governo di un Comune è pur sempre una figura importante, la più vicina ai cittadini. Può risolvere problemi. Può fare la differenza. E fin qui siamo completamente d’accordo con il Direttore. Quello che non torna però sono le conclusioni, nelle quali, per la politica nazionale si invoca “una nuova e auspicabile stagione proporzionale”.

Ma siamo proprio sicuri che un sistema proporzionale realizzerebbe quelle condizioni accattivanti per rendere la competizione virtuosa? La storia ci dice di no, la logica delle istituzioni ci dice di no. E lo dimostra proprio il caso di Lepore. Siamo proprio sicuri che, se le elezioni comunali fossero, com’erano una volta, solo per il Consiglio, con il proporzionale e senza elezione diretta, oggi in quel posto ci sarebbe Lepore e non un signor Nessuno? Non è forse perché la competizione è per il “governo” del Comune e non per assegnare le quote a liste e listarelle, che Lepore è lì dov’è? Non è forse per il fatto che l’elezione del sindaco risponde a una logica maggioritaria (nei Comuni a due turni, nelle regioni a uno), per cui vince chi arriva primo (e gli altri perdono), che tutti hanno incentivi a schierare i migliori candidati possibili (e gli errori si pagano)? Non è forse perché, una volta eletto, il sindaco sa che il suo mandato è blindato rispetto agli appetiti distruttivi di avversari e alleati? Tanto che, nel caso di crisi, non ci sarà una sequela di altri “governi” decisi dai patti di convenienza tra partiti, ma si tornerà davanti agli elettori e ciascuno si assumerà le sue responsabilità?

Sono queste le ragioni del successo della competizione, non il fatto che il sistema elettorale per il consiglio comunale sia (in parte) proporzionale. Ma, allora, perché il discorso dovrebbe cambiare a livello nazionale? Perché un sistema proporzionale dovrebbe assicurare il sorgere di uno spirito virtuosamente competitivo? Certo la posta in gioco è la distribuzione del potere in Parlamento. Ma sappiamo tutti che nelle democrazie contemporanee (e lo diceva Einaudi nel 1946) la vera posta in gioco è la scelta di chi governa e possibilmente di chi il governo lo guida. Soprattutto in un paese come l’Italia che, a differenza della Germania, non ha nessuna cultura della “lealtà di coalizione” e i governi (con i loro capi) nascono e muoiono come funghi.

Conosco le obiezioni. La prima è che anche il maggioritario in Italia non ha prodotto stabilità; la seconda è che pensare a qualcosa di diverso dal proporzionale è pura utopia (Cerasa lo dice a proposito del doppio turno). Alla prima obiezione rispondo che il rendimento del maggioritario in Italia non è dipeso dal sistema elettorale. Perché quello, malgrado fosse misto e mai totalmente maggioritario, ha fatto il suo mestiere. Produceva vincitori e vinti. Ciò che è mancato è stata la riforma costituzionale che “proteggesse” la logica del maggioritario dalle imboscate successive dei partiti, consentite da istituzioni incapaci di assicurare stabilità ai governi. Istituzioni che incentivavano viziosamente ogni assalto alla diligenza. E qui scatta il secondo argomento: “pensare alle riforme è pura utopia. Ci abbiamo provato. Rassegnatevi!”.

È probabile. Ma non è che, siccome non possiamo avere la medicina giusta, allora dobbiamo somministrare quella sbagliata. È più onesto dire: “in assenza di cura dobbiamo rassegnarci ai trattamenti palliativi”. Altrimenti illudiamo semplicemente il paziente. E augurarsi un sistema elettorale proporzionale significa semplicemente illudere il paziente. Magari contando sul ravvedimento operoso dei partiti. Questa sì che è pura utopia. Dopo 160 anni dello stesso copione nel comportamento parlamentare dei partiti (anche dell’agognato “centro”), pensiamo veramente che quelli di oggi (messi abbastanza male) possano cambiare abitudini senza incentivi veri a una competizione diversa e a comportamenti diversi?

È vero: chi fa giornalismo deve coltivare la virtù del realismo, ma il realismo dev’essere a 360 gradi. Per non dire poi delle tante battaglie controcorrente di cui invece giornali e opinionisti si sono fatti portatori nella storia. Battaglie nell’interesse generale, non di questa o quella parte. Quante “apparenti” utopie si sono trasformate in realtà grazie al movimento di pensiero generato dalla carta stampata e dal dibattito pubblico? Sarebbe bello se giornali che fanno opinione in modo acuto e originale come Il Foglio e tanti altri cominciassero a dire ai cittadini-lettori: “Sarà pure utopia, ma le alternative sono solo cure palliative. Sono solo prolungamento della sopravvivenza, amministrazione dell’agonia”.