L’articolo di Ortenzio Zecchino pubblicato su questo giornale interessa non solo i cultori del diritto ma anche chi ha a cuore un corretto assetto istituzionale del Paese. Zecchino fa una pregevole sintesi della evoluzione che la legislazione ha avuto negli anni e che ha consentito un diritto, come egli precisa, soltanto “orientativo“ per i magistrati non più “prescrittivo“ come la codicistica consiglierebbe. È interessante commentare le riflessioni puntuali di Ortensio con riferimento alla situazione attuale italiana e al rapporto patologico che vi è tra la magistratura e la politica. Ricordo un libricino molto interessante del giurista Luigi Mastursi che già negli anni 70 individuava il giudice non più “bocca della legge“ e non più “sottoposto alla legge”, ma un giudice “di fronte alla legge”.

Questa espressione, pronunziata tanti anni fa, dimostra la lungimiranza dell’autore ed è il linea con le indicazioni dell’articolo citato. Già in quegli anni si cercava di individuare un ruolo diverso del giudice e del pubblico ministero che è maturato in questi anni autonomamente nella “corporazione”, con la indifferenza e la assenza del legislatore.
Il Parlamento ha approvato leggi sempre più imprecise e generiche per attribuire consapevolmente o inconsapevolmente un ruolo di supplenza alla magistratura la quale ha cominciato a non essere sottoposta alla legge, appunto, ma a porsi “di fronte alla legge“. Per la Costituzione, la magistratura era un’altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo residuale nel senso che la certezza del diritto e delle norme, in un preciso contesto codicistico, garantiva la terzietà del giudice, la sua scontata imparzialità e la sua estraneità rispetto a vicende politiche.

La conseguenza è che la magistratura da “ordine autonomo”, come vuole la Costituzione è divenuto “potere“ e il potere ha pur sempre valore politico. Questo potere incontrollato ha attribuito al magistrato una dimensione etica impropria, quella di “garantire la legalità” che è la causa principale della deformazione della funzione della giustizia, del suo rapporto anomalo anche con l’opinione pubblica. La sovraesposizione dei pubblici ministeri prima ancora che dei giudici e il ruolo politico che entrambi hanno assunto negli ultimi anni, hanno modificato la funzione istituzionale “terza” propria della giustizia, per farle assumere quella di “garante della questione morale”. I giudici o meglio i magistrati hanno una funzione diversa: debbono reprimere l’illegalità, sanzionando il fatto criminoso, risarcendo in tal modo la comunità dallo strappo che il reato ha determinato nel tessuto sociale.

Da molti anni tutto questo è stato dimenticato e sia il pubblico ministero che il giudice nella grande confusione di ruoli hanno teorizzato una funzione della giustizia come una “lotta” alla devianza per “garantire la legalità”, e la lotta è sempre “politica”. La conseguenza è che si è determinata una funzione etica e pericolosa del magistrato che “lotta” per far vincere il bene sul male. Il potere legislativo dunque non è stato in grado di prendere atto delle profonde modifiche che il ruolo del giudice richiedeva, e di mettere in atto interventi per “regolare“ quel “potere”: ogni potere non può non essere riconosciuto come tale, e appunto “regolato“, mentre la magistratura, per la assoluta preminenza che ha assunto la giurisdizione, ha continuato ad essere inevitabilmente organismo corporativo: una contraddizione che determina anomalie e contrasti. L’espansione del potere giurisdizionale ha dunque alterato l’equilibrio dei poteri così come l’aveva concepito Montesquieu: questa la questione della giustizia italiana.

Il Csm che è l’organo di riferimento della magistratura per questa ragione non riesce a essere un organo di “garanzia”, ma un organo che tutela solo “l’autonomia”, senza responsabilità e senza controllo, e non l’ “indipendenza” che è valore supremo.  La assoluta “autonomia” intacca l’indipendenza che dunque è insidiata non dal potere politico ma dalla stessa magistratura. È questa dunque la premessa culturale che ha consentito in questi anni una funzione della magistratura fuori dalle regole istituzionali, ideologizzando il suo ruolo come un ruolo politico, non al di sopra delle parti, ma capace di assumere una sorta di arbitraggio della questione sociale per tutelare le ragioni delle parti sociali di antagonismo tra loro. La classe dirigente politica ha assistito in maniera passiva e remissiva a questo tentativo e a questo sconvolgimento.

Se negli anni 80 e 90 la classe dirigente politica avesse avuto il coraggio di reagire, di difendere le prerogative del Parlamento e della legislazione si sarebbe evitata una deriva che ha incrinato la nostra cultura del diritto e il legislatore non ha prodotto leggi “erga omnes” ma leggi per regolare singoli conflitti, con l’illusione che, per risolvere qualunque problema, sia necessaria una legge. Abbiamo avuto leggi “manifesto” che costituiscono una “bandiera”, addirittura con titoli retorici come “la buona scuola” oppure, “spazza corrotti”! Le leggi sono diventate dunque “regolamenti” e di conseguenza la giurisprudenza ha acquistato importanza e peso eccessivo.

La verifica di tutto ciò sta in questi giorni negli innumerevoli decreti legge e decreti presidenziali che vengono presentati e dovrebbero regolare i nostri rapporti sociali come quelli attuali nell’epoca del coronavirus che sono assolutamente incomprensibili. Il titolo dell’articolo di Zecchino fa riferimento alla “burocrazia“ che ostacola lo sviluppo, ma possiamo concludere che prim’ancora dell’apparato burocratico è il legislatore che ha rinunziato alla suo ruolo di indirizzo politico, ad emanare leggi chiare e univoche e cogenti per evitare una Repubblica giudiziaria e garantire l’equilibrio di poteri voluti dalla Costituzione.